Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





un'opera recente di Claudio Ruggieri





CLAUDIO RUGGIERI: VISIBILE/INVISIBILE

L'ipotesi che viene configurata in questa installazione rimanda ad un modello di "immaterializzazione" del comportamento estetico nel cui ambito le determinazioni spaziali e rappresentative della produzione artistica si dissolvono in una propensione eminentemente ricettiva, in un'"area" attraversata da flussi di sensibilità ove il vivibile si sostituisce al visibile. Il movimento ascendente di questo processo (la sua "verticalità") induce l'abolizione di ogni pesantezza, uno sgretolamento della consistenza oggettuale che presta voce all'impercettibile dell'elemento aereo come a ciò che di essenziale (di non partecipe alla sostanza) vi è nella cosa.
Il connotato dell'immaterialità si amplifica, precisandosi, in movimento (in una "vitesse absolue", per Derrida) e comunicazione. Le radici aeree dell'orchidea posta al centro dell'ambiente, assorbendo l'umidità contenuta nell'aria, ne costituiscono un terminale. Le bombolette spray collocate davanti alla finestra appaiono come "contenitori" momentanei di un gas destinato, in potenza, a toccare i limiti dell'atmosfera.
La trasparenza dell'aria include in sé tutti i colori. Ma questi, nella loro pesantezza terrestre, non possono che scivolare verso il suolo, lungo le direttrici segnate da barre di vetro : "Il colore non vive che nel buio del barattolo", al riparo da ogni influenza disgregatrice.
Analogamente, il silenzio eccede la somma dei rumori. L'interno cavo delle cinque sculture (identiche) di bronzo, li risucchia. Permane, attorno, non il vuoto di Klein - un vuoto in cui si recita il gesto dell'artista - ma un pieno che esaurisce ogni possibile, un tutto da respirare, da assorbire.


s.r. (1988)


P P P

L'installazione trova il suo spazio nel varco che si apre fra i segni linguistici e gli elementi plastici, fra parola e cosa. Quella che, sul piano verbale, si presenta come identità , si palesa, nella sfera delle realtà oggettuali, come irriducibilità reciproca. Una pialla è una pialla. Ma questa diversa da quest'altra. O da un'altra ancora.
Il coesistere di tratti d'identità e di specificazioni concrete differenti segnala lo stabilirsi d'una tensione fra gli oggetti dello stesso nome, l'impianto di una struttura "a cornice" che s'intreccia con un'altra "a gradini", fissata attraverso un processo di elisione.
Pialla/Palla/Pala. La singolarità di questa sequenza verbale non consiste nel suo disporsi come tour de force veloce il cui residuo (I/L) si configura in un articolo sospeso, privato del supporto d'un nome, bensì nel pervenire - in un succedersi di trasformazioni elementari indipendente da una precisa volontà di significazione - ad un articolarsi complesso del senso, concernente da un lato la spazialità definita attraverso le componenti verticali, orizzontali, sferiche rispettivamente esibite dalle tre classi di oggetti incluse nell'installazione, e per altro verso l'apertura di una riflessione d'ordine più marcatamente concettuale intorno alla profondità, alla superficie ed allo stato aereo.
Il lavoro di scavo della pala, il moto in superficie della pialla, l'innalzarsi nell'aria della palla danno luogo ad un ulteriore schema triadico condensato in una sigla (PPP) esattamente sovrapponibile a quella ricavata dagli insiemi di oggetti omologhi da principio enunciati.
Una sigla che - non diversamente dallo spazio della galleria ove sono contenuti questi strumenti/non-strumenti - si designa a sua volta come cornice (immateriale/aerea) atta a mantenere "ogni interpretazione sospesa nell'aria insieme con l'interpretato" (Wittgenstein), a trattenere entro uno schema di riferimento minimo illimitate virtualità di significato.


s.r. 1989


CLAUDIO RUGGIERI

Il lavoro di Claudio Ruggieri è venuto configurandosi, nel corso dell'ultimo biennio, come un insieme di operazioni condotte in zone liminari, su opposizioni fenomeniche, come nel caso di "aree aeree" (1988) che faceva agire l'antitesi idrofilo/idrofugo, e su scarti di senso, secondo quanto invece accadeva in "p p p" (1989), dove il gioco di sottrazione dispiegato nella sequenza verbale pialla/palla/pala si trasformava in articolazione spaziale, definita - è stato rilevato - "attraverso le componenti verticali, orizzontali, sferiche rispettivamente esibite dalle tre classi d'oggetti inclusi nell'installazione". L'impiego di quest'ultima subisce una essenziale distorsione, che da sintesi di valori plastici e di relazione la trasforma in dispositivo idoneo unicamente a provocare il realizzarsi dell'evento, peraltro immateriale o impercettibile (rappresentato, in "aree aeree", dall'evaporazione dell'acqua contenuta in alcuni catini e nell'assorbimento dell'umidità così prodotta da parte d'una pianta con radici aeree), od in mera cornice esemplificativa di un'operazione che sta a monte, ciò che appunto si verificava nella seconda operazione rammentata, già compiuta nello schema triadico evocato nel titolo. Ruggieri si muove tra queste polarità di dispersione e concentrazione, sezionando l'ipotesi di "fisicizzazione dell'idea" (affacciata da Celant relativamente all'Arte Povera) per seguire le logiche parallele del consumo e della virtualità.

s.r. (1990)


CLAUDIO RUGGIERI: DA SETTEMBRE

- Per questa mostra ho pensato che m'interessa proporre un lavoro che esce dal mio studio, non costruito per questo o quello spazio e che in qualche modo funziona come un'idea...

- Un'idea, dici. Quale?

- Il titolo di questa mostra

"da settembre", potrebbe essere un'apertura di stagione, dopo una vacanza, ricominciare la solita routine ...

- Dunque un ciclo di lavori. Tuttora in corso?

- Si tratta di un ciclo di 1300 lavori realizzati a partire dal settembre 1993 sino al settembre 1994. In questa mostra da "Satura" che io considero un po' come la mia prima mostra ufficiale, anche se ne abbiamo fatte altre - a Pisa da Delio Gennai, ad Alessandria, nella tua casa di campagna a Sarissola - espongo una selezione di centotrenta lavori. Altri ne mostrerò poi ...

- E' una sequenza abbastanza diversificata, in cui appaiono come delle condensazioni tematiche: i volti, fogli con punti e cerchi più volte reiterati, segni vagamente curvilinei, sagome umane o d'animali.

- Sì, sono cose in cui affiorano immagini diverse, che hanno a che fare con la tematica degli elementi idrofilo e idrofugo, che - tu lo sai - sono alla base del mio lavoro. I punti, o i cerchi, per esempio, hanno attinenza con l'acqua, mentre i tratti a pennarello sono radici aeree che assorbono l'umidità che sta nell'aria. Poi ci sono dei flash, il mio ritratto, un cane, una pera ... ma non è questo che importa. Tutti questi che vedi sono comunque elementi che hanno consumato un rituale.

- Cosa intendi con questo?

- Sono elementi, o se vuoi oggetti, che fanno parte di un lavoro eruttivo, non costruito razionalmente - in rispondenza ad uno schema di regole come accade in un rituale evoluto - ma per rispondere ad un bisogno, tutto sommato primordiale, di consumare, di trasmettere delle energie e di fissarle, rendendole inattive.

- Inattive?

- Sì, tagliate via da me. Per altri, non so, possono contenere informazioni, segnali. Ma per me fondamentale è il momento in cui mi collego con il foglio, il momento in cui vi deposito delle energie. Diciamo che è come se avessi fatto delle fotografie: quello che m'interessa è l'istante in cui avviene lo scatto. Il risultato, poi, non ha grande rilievo. Io non sono un pittore.

- Lasciando da parte altri aspetti del tuo operare (l'attività di gallerista tanto per citarne uno), se non ti consideri pittore - pur facendo uso, in questa occasione, soprattutto di tecniche pittoriche - ti qualifichi per come artista.

- E' vero, ho usato il pennello. Ma nella stessa maniera in cui ho utilizzato i chiodi per installare i miei fogli. E' una modalità tecnica a disposizione di tutti: anch'io, come gli altri, posso farne servirmene senza particolari implicazioni. Quanto all'essere artista, il mio modello, se così si può dire, è quello della pianta epifita.

- Cioè una pianta con radici aeree, come l'orchidea che avevi inserito nella tua installazione a Pisa.

- Sì, una pianta, quindi, che non è saldamente confitta al suolo bensì ha una sua mobilità, può assorbire l'umidità trasportata nell'aria, una forma d'energia leggera, che può venire non da un habitat ristretto ma da lontano, da differenti direzioni.

- Assorbire l'umidità dell'aria: di nuovo un richiamo all'elemento idrofilo.

- Lo dicevo prima: in tutto il mio lavoro (anche nei fogli che vedi qui appesi, dove i segni sono tracce liquide assorbite dal supporto) è rintracciabile questo riferimento, alchemico in fondo, all'aria e all'acqua.

- E la terra? Il fuoco?

- No, a me interessano questi elementi mobili, impalpabili, che sembrano eludere una misurazione fisica per aprire verso un altro tipo di percezione. Per questo presento anche, sul pianoforte che di solito viene usato per i concerti, tre "macchine alchemiche", composte da un basamento cilindrico di carta (idrofilo) sormontato da un contenitore in plastica (idrofugo).

- Quest'ultima parte dell'installazione sembra in qualche modo stabilire un contrasto con i fogli del ciclo "Da settembre". Dalle tue "macchine alchemiche" è come espunta l'immagine.

- Le "macchine alchemiche" si inseriscono in quello che prima chiamavo "rituale evoluto". Non c', qui, un lavoro eruttivo, fondato su un bisogno primordiale di consumare l'oggetto, un lavoro quindi per sé stesso chiuso. C'è, invece, un'oggetto costruito per un funzionamento illimitato, basato su un'energia allo stato puro; una macchina a cui tutti e non solo l'artista possono collegarsi con il pensiero.

- Per questo l'immagine, che è sempre una determinazione individuale, non appare?

- Penso si possa dire così. Ma, portando il discorso su un piano meno specifico, si potrebbe forse dir meglio - con Eraclito - che "l'armonia nascosta è più forte di quella manifesta".

(intervista raccolta da s.r. - 1994)

 

QUADRO SPORCO I

s.r. - Sono passati tre anni dall'ultima tua mostra, in cui esponevi una parte delle centinaia di disegni del ciclo "da settembre". Ora, se non ho capito male, torni ad esporre nel tuo spazio milanese con Corrado Levi. E presenti un solo pezzo, il "quadro sporco"...

c.r. - No, in realtà è anche questo un ciclo di lavoro, un "ripescaggio" della pittura ad olio che ho praticato molti anni fa', quando fare e distruggere non frenavano la mia rincorsa ... il "quadro sporco" è la mia crisi di allora con la pittura.

s.r. - A quando bisogna risalire?

c.r. - All'83. Ero a Torino, dipingevo un quadro sporco di colori. Un mix di colori primari per una stesura uniforme.

s.r. - E oggi?

c.r. - Oggi, paradossalmente, quella rottura si è rimessa in circolo. Il quadro sporco si è moltiplicato. Utilizzo le fasi che l'hanno preceduto per alimentarne una realizzazione sempre diversa.

(frammento di un'intervista raccolta da s.r. - 1998)

 

QUADRO SPORCO II

Nessuno schema di tipo lineare, sia pure intrecciato, non un percorso in senso proprio (anche se il dipanarsi del regesto fra cicli egualmente focalizzati sul “quadro sporco” sembra suggerire il contrario). Piuttosto una diramazione dei progetti a raggiera, a partire da un nucleo costituito da due polarità differenti, definite dall'artista rispettivamente come “lavoro eruttivo” e “rituale evoluto”. Alla prima fra queste corrisponde un trasferimento ed una condensazione di energia in un’oggetto (foglio, dipinto o altro che sia) che ne trattiene la traccia inattiva. Alla seconda, l’individuazione di procedimenti che rendano percepibili sequenze di trasformazione o la costruzione di “macchine alchemiche”, in cui l’energia non sia dissipata istantaneamente, ma si canalizzi in flussi costanti, tendenzialmente ininterrotti. La compresenza di queste modalità - che si condizionano a vicenda, legando oggetto e macchina alla dimensione energetica - rendono comunque eccentriche, ambivalenti, le direttrici operative di Claudio Ruggieri. Lo si constata in particolare nel caso del “quadro sporco” (delle sue elaborazioni recenti più che della fase critica attraversata nei primi anni ’80). Si realizza qui una congiunzione di aspetti determinativi/indeterminativi, già isolati mediante un procedimento, una distillazione di tipo verbale - da cui il determinato scaturiva come residuo insignificante e trasposizione assoluta dell’indeterminato - in una installazione degli anni ’80: “P P P”. Nel “quadro sporco” la tecnica pittorica non si dispiega come sapienza manuale e neppure come ricerca di nuove soluzioni. Lo scopo non è un esito visuale, anche se l’esito visuale risulta raggiunto. Non si prefigge di attingere l’originalità, e neppure la banalità, anche se l’una viene sollecitata attraverso l’altra. La pittura viene assunta, con tutta naturalezza, nella sua natura di medium. Utilizzata per la definizione di un’interzona, in cui sia possibile aggirare il discrimine fra energia e materia inerte, fra luce e opacità, fra tutto e niente. In questo tentativo risultano chiaramente insufficienti le strategie impiegate nel passato più o meno recente, tese ad evidenziare l'aspetto energetico attraverso il gesto, la violenza deformatrice e l'accensione cromatica, o a mettere a fuoco la dimensione della luce attraverso la ricerca di essenze prossime all'assoluto (con cui non a caso polemizzava un altro cultore dello "sporco", Beckett, attaccando i "pittori dell'impedimento", del genere di Mondrian). Il "quadro sporco" rappresenta un terrain vague, il varco fra una situazione di "complessità semplice", ove la razionalità mantiene l'usuale ruolo ordinatore, e quello stato che Jankélévitch definisce come "complexité complexement complexe", come "un mélange multiplié par le mélange" o ancora, "desordre sur du desordre". La sedimentazione e la reciproca contaminazione dei colori implode energia e luce in un impasto che paradossalmente inclina all'"amorfo" e all'"aplastico". In definitiva l'artista sembra proporsi il superamento dei dualismi evocati più sopra non per il tramite di una sintesi di tipo dialettico od un'impraticabile conciliazione degli opposti, ma attraverso la messa in scena dell'impurità, come modello di pluralismo e di stratificazione potenzialmente illimitati. Niente più "liturgie du denuement" (Dagognet), né "devoilements de devoilements" (ancora Beckett). Al contrario, un addensamento in cui tutto viene azzerato e rimane pulsante.




(s.r. - 2000)





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