Hozro: mostre a Genova





Fernand Leger



TEMPO MODERNO

Biblica condanna o attività creatrice, forma di sfruttamento o diritto primario, il lavoro – un tempo stabile e ripetitivo, ora flessibile e polivalente - mantiene anche nelle società postindustriali un’innegabile centralità. L’utopia recente della liberazione della vita attraverso il progresso tecnico e l’avvento dell’informatica non si è realizzata. E mentre attendiamo che - come appuntava ironicamente già nel primo Ottocento Sismondi - “il re, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell'Inghilterra”; mentre vagheggiamo che la riscossione dei “dividendi del progresso” ci sollevi dalla fatica e dal bisogno, incombono sul nostro presente le ombre della precarietà, dell’emarginazione, dell’indigenza.
Di queste tensioni contrastanti la letteratura e le arti visive sono state, dalla metà del XIX secolo, e rimangono tuttora un sismografo sensibile, capace di registrare i radicali cambiamenti intervenuti, proponendone all’immaginario collettivo rappresenta-zioni esemplari.
A tracciare un panorama stimolante del rapporto fra espressione artistica e lavoro, nella ricorrenza del centenario di fondazione della C.G.I.L., viene la mostra ordinata a Palazzo Ducale da Germano Celant con Anna Costantini e Peppino Ortoleva, intitolata - in omaggio al celebre film di Chaplin sui ritmi disumanizzanti della catena di montaggio – “Tempo moderno”. Accostando avanguardie e realismi (sovietici quanto americani), accentuazioni critiche e propaganda di regime, documenti fotografici e fiction filmica, l’allestimento crea una sequenza di notazioni frammentate e cronologicamente dissonanti nella quale il confronto fra il dato storico e l’attualità si esercita senza tratti retorici, sollecitando attraverso i reciproci spiazzamenti una riflessione aperta sugli sbocchi futuri.
Così l’espressività intrisa di pathos di Van Gogh (testimoniata da “Coppia al lavoro nei campi”, 1885, proveniente dal Kunsthaus di Zurigo) trova il suo contrappunto nell’algido – vuoto e capovolto – ufficio di Damien Hirst (“L’acquisita inettitudine alla fuga, invertita”, 1993), mentre alle mondine vercellesi ritratte all’inizio del secolo scorso nelle foto di Adriano Tournon si sostituisce l’imperscrutabile folla degli operatori della borsa di Tokyo ritratti da Andreas Gursky, rigorosamente abbigliati in camicia bianca ed abito nero.
Nelle sale dell’appartamento del Doge emerge poi con chiarezza il trapasso da una prospettiva incentrata su situazioni e attività legate ad uno specifico ambito territoriale (documentate, per quel che riguarda il contesto ligure, nel bozzetto per “Il Cantiere” di Plinio Nomellini e dagli scatti di Federico Patellani sugli scaricatori del Porto di Savona) ad una dimensione “globalizzata”, riflessa nelle stampe fotografiche di Edward Burtynsky, ove le raffinerie di Oakland, i cantieri di demolizioni navali di Chittagong (Bangladesh) e l’inquadratura di operai al lavoro in un opificio tessile di Xiaoxing paiono integrati in una sola, complessa ma inscindibile, realtà.
Dalla prima sala in cui programmaticamente all’eroe sovrumano di “Al lavoro per l’America” effigiato nel 1918 da Dean Cornwell fa riscontro il robot di schermi televisivi costruito da Nam June Paik (“High Tech Baby”, 1986) e dove, da opposte pareti, si fronteggiano le fotografie del 1908 di Lewis Hine e di Burtynsky (2004) negli ambienti sucessivi si passa ad esplorare il tema dei luoghi di lavoro, a cominciare dall’“Officina del gas a Courcelles” (1884) di Jean-Ernest Delehaye, pervaso dal grigio cupo del carbone ed annebbiato dalla dispersione dei fumi, sino alle forme stilizzate nel blu-giallo-rosso della tavolozza neoplasticista di Bart Van der Leck (“Lavoro al porto”, 1916) ed alle impalcature su cui s’inerpicano i “Costruttori con la fune” (1950) di Fernand Leger, opera centrale della rassegna.
Per inoltrarsi poi nelle raffigurazioni delle lotte, con il corteo di “Sciopero – a Le Creusot” (1899) di Jules Adler ed il “Tumulto in Carol Street” (1944), sinteticamente illustrato da Ben Shahn, e nell’emergere dei simboli: le bandiere rosse del “Comizio” (1950) di Giulio Turcato e la “Falce e martello” (1976) trasposto da Andy Warhol in icona pop.
E, a seguire, nel “macchinismo” di un Depero, futurista sui generis, e del novorealista Tinguely con le sue sculture di elementi riciclati, animate da motori elettrici.
La consistenza fisica della figura del lavoratore, raffigurata da Sironi (“La famiglia del minatore”, 1929) si perde di fronte all’invasione dell’oggetto, con gli assemblaggi del dadaista russo Ivan Puni, irti di martelli e tenaglie, che precorrono e rinviano alla sega, destituita dalla sua funzione dalla realizzazione in tessuto, di Claes Oldenburg ed all’accumulo di macchine da scrivere di Arman, per riaffacciarsi in coda all’esposizione nelle vesti disincarnate di “Ernest One”, una mano meccanica progettata dal DIST dell’Università, che - con il suo aggancio alla ricerca avanzata – rimanda al futuro possibile del lavoro a Genova, alla competizione in uno scenario mondiale attraverso qualità e innovazione.

s.r. (2006)





HOME PAGE

ARCHIVIO ARTISTI

MOSTRE A GENOVA