Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





ALBERTO SALIETTI

Si va diffondendo negli studi sull'arte italiana della prima metà del '900 un nuovo conformismo? Ne è convinto Guido Giubbini, direttore del Museo di Villa Croce, che nell'introdurre in catalogo la retrospettiva di Alberto Salietti lamenta la pressoché esclusiva attenzione riservata ai protagonisti, "come se ben poco esistesse al di fuori di Morandi e Carrà, De Pisis e de Chirico, Sironi e Casorati". A contraddire questo assunto stanno però non solo i ponderosi regesti rappresentati dai volumi dedicati dalla Electa alla pittura ed alla scultura italiana del nostro secolo o dalla "Storia dell'arte italiana del '900" ricostruita per generazioni da Giorgio Di Genova, ma le innumerevoli iniziative, spesso motivate da fattori locali, che a partire dagli anni '80 si sono moltiplicate all'eccesso, segnando una rivincita, generalizzata quanto acritica, dei comprimari e dei minori.
La stessa mostra dedicata all'artista ravennate, legato alla Liguria da rapporti familiari e da una lunghissima residenza, nasce nel quadro degli studi intrapresi dai curatori su quella sorta di "comunità artistica ligure-lombarda" costituitasi nella prima metà del secolo e, più in particolare, dalle ricerche svolte da Franco Ragazzi sugli artisti attivi nel Levante, da cui già erano scaturite l'antologica dedicata proprio a Salietti, per il centenario della nascita, dalla città di Chiavari (1992) e, più di recente, le rassegne dell'opera pittorica di Guglielmo Bianchi e dei paesaggi ligustici di Arturo Tosi, allestite nel 1995 rispettivamente a Lavagna ed a Rapallo.
In ogni caso, la retrospettiva genovese sembra porsi un obiettivo diverso dalla rivalutazione di un artista dichiaratamente ascritto, forse un po' restrittivamente, alla categoria dei minori. L'analisi puntigliosa del percorso creativo di Salietti - nel cui ambito largo spazio è riservato alle problematiche della pittura murale, indagata attraverso i cartoni di recente donati al Museo - diviene occasione di un'interessante messa a punto storica a proposito del Novecento italiano, il movimento patrocinato da Margherita Sarfatti (ed avallato agli esordi, nel 1926, da Mussolini).
Nella vicenda del pittore, che di Novecento fu il solerte segretario, si colgono infatti elementi che contribuiscono ad incrinarne ulteriormente l'immagine tradizionale, già intaccata da Rossana Bossaglia che vi ha scorto la variante italiana dei "realismi" europei degli anni '30, di tendenza chiusa e provinciale, propugnatrice del "ritorno all'ordine" nelle arti, dopo la concitata stagione delle avanguardie.
"Grazie alla sua formazione ed alla sua apertura internazionale - nota infatti Giubbini - Salietti è in grado di anticipare, già nel 1926 e dall'interno, quelle che saranno le scelte antinovecentiste in senso neoimpressionista e neoespressionista dell'arte italiana intorno al 1928-1930. Ma la sua non è una scelta, è solo l'uso spregiudicato di un linguaggio e del suo contrario; di più, è un calcolo che corrisponde organicamente alla strategia del movimento".
Al di là della difficoltà di convalidare, muovendo da un'esperienza singola, la tesi dell'effettiva sussistenza di "due anime" nell'ambito del Novecento italiano, le opere in mostra evidenziano non solo il susseguirsi nel periodo giovanile di momenti stilistici diversi (dall'iniziale impronta "ottocentesca-scapigliata" assorbita durante la formazione a Brera all'estenuato divisionismo del Frate Francesco dipinto nel 1917; dalla figurazione chiara e semplificata di Sobborghi milanesi, del 1920, al Realismo magico, ispirato a Carrà, de La canzone italiana, 1925) bensì la presenza, nell'opera matura, di una pluralità di registri.
La produzione ritrattistica, come quella degli interni borghesi, appare scompartita fra esempi di composizione rigorosa e sorvegliatissima - le "esecuzioni rifinite" di cui ragionava Vincenzo Costantini nel '34 lodandone l'esecuzione e la "chiarezza veristica tutta ottocentesca" - e di stesure più scorrenti e cromaticamente vivaci: si pensi da un lato al Ritratto della Signora Amelia Gallini (1927), chiuso in una frontalità severa, e, dall'altro alla fresca figura femminile abbozzata nel Ritratto dell'anno successivo od alla leggerezza di toni della Ragazza che cuce (1931).
Fra i paesaggi, invece, si distinguono scorci impostati su scansioni volumetriche di ascendenza cezanniana (Riviera Ligure, 1926; il celebre Tunnel del 1928) da immagini più immediate ed ariose (Piccola marina, 1927; Zoagli, 1935).
Una mutevolezza d'accenti che non va quasi mai a scapito della qualità pittorica e che Ugo Nebbia (autore nel 1925 della prima monografia saliettiana) spiega come naturale alternanza fra la volontà costruttiva che si dà "nello spirito di una vera rinascita" ed il "bisogno di tornare su qualche più intima e serena visione delle cose, per ricercare ancora in esse le note più concordanti col proprio sentimento".
All'opinione del critico corrisponde la voce stessa dell'artista: "dai primitivi e dai maestri del quattrocento avevo accolto suggerimenti formali ed il loro stile che poteva minacciare di trasformarsi in stilizzazioni, dovevo comprendere invece il più profondo insegnamento loro: quello che me li indicava realizzatori di valori pittorici e costruttivi essenziali. In questa ricerca non ho avuto timore del "bello" ed ho tentato quanto potevo per esprimerlo. Non ho voluto pormi di fronte ad alcun programma: ma ogni volta di fronte ad una mia emozione, convinto ormai che la pittura è una".

s.r. (1996)





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