Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





SANDRO RISTORI

In un numero di "Minotaure" che segna, più o meno, il suo esordio di fotografo, Brassaï racconta di avere scoperto che "sul muro", istoriato di graffiti anonimi, "la prima rappresentazione dell'uomo non è il "girino": un tondo munito di quattro tratti, come affermano gli psicologi dell'infanzia - bensì è resa con due buchi, che evocano lo sguardo". Sguardo fissato, consegnato alla memoria, dal "terzo occhio" fotografico, oggi votato - in un epoca in cui, come osserva Paul Virilio, "le cose sono andate così avanti che si può parlare di un'automazione della percezione" e la prova sperimentale inizia ad esser data per mezzo di "macchine per vedere" - a piegarsi su sé stesso, a riflettersi e duplicarsi misurando la distanza temporale con la proposta dell'identico, al modo di Sherrie Levine che riproduce Walker Evans.
A far scaturire questo riflesso non è, probabilmente, una scriteriata coazione a ripetere e neppure un feticismo dell'immagine meramente privato; vi si dispiega, piuttosto, quella che Craig Owens ha definito come una transizione "dall'opera alla cornice". Ma un simile modello di svuotamento, se il solo che possa reggere di fronte a una pretesa di unicità - insita nell'opera originaria - può a sua volta venir ribaltato. Anche ponendosi al di fuori dell'ottica dell'elezione artistica dell'oggetto volgare: nelle forme radicali del ready-made come in quelle corrive dell'arte pop. L'idea di ricercare dai periodici degli anni'40/'50 - se non d'anteguerra - immagini, soprattutto di personaggi ed eventi sportivi, radicati nel contesto italiano non ha molto in comune con l'apologia del divismo perpetrata dall'ultimo Warhol. Nè mostra maggior attinenza con la temperie neorealista, benchè le sequenze dedicate al Giro d'Italia del 1949, agli incontri di boxe rinviino in qualche modo al concitato plot testoriano del "Dio di Roserio" od alla sceneggiatura - che ebbe anehe la collaborazione di Pratolini - di "Rocco e i suoi fratelli", per non dire della pagina di Quarantotti Gambini in cui si evoca una vicenda analoga a quella di Enzo Fiermonte valendosi proprio dell'espediente d'una foto che uno dei personaggi scorge "curvo sopra un settimanale che teneva tutto aperto reggendolo ai margini con le mani chiuse a pugno".
L'obiettivo di Ristori, in questi polittici agonistici, articolati su immagini standard, del tipo di quelle che figurano descritte nei manualetti pratici coevi (che teorizzano per il pugilato "un'inquadratura ... colta necessariamente dal basso" idonea ad "illustrare lo sforzo, lo scatto e il movimento, cioè i tre aspetti fondamentali di questo sport"), sembra piuttosto consistere nell'assunzione di un'immagine assolutamente piena, anche di esteticità e di pathos. Di un termine autosufficiente ("la boxe è soltanto come la boxe", sancisce Joyce Carol Oates), conchiuso anche temporalmente in sé stesso; d'una sembianza forte, per le sue implicazioni memoriali oltre che per la centralità sociale del fatto sportivo, cui fa riscontro una pittura invisibile: stesure, a pennello, di vernice poliuretanica trasparente che appena serbano la traccia del colore, poi silicone, anch'esso trasparente, lavorato a spatola. Una parvenza esteriormente antitetica ai primi lavori dell'artista (i grandi monocromi neri realizzati fra il 1978 ed il 1982), che si lascia attraversare dall'immagine e nel contempo le si tiene a ridosso, perpetuando con essa un contatto fisico, pur nell'autonomia del suo svolgimento. Una sorta di patina che, senza rinunciare alle proprie suggestioni, alla stessa pennellata impulsiva, finisce per bloccare la fotografia, congelandola, per smentirne l'eccesso di presenza. Nel momento stesso in cui l'intervento manuale, dissimulato nel suo aspetto vitreo, si traduce quasi fortuitamente in paradosso sulla pittura.

s.r. (1993)





HOME PAGE

ARCHIVIO ARTISTI

MOSTRE A GENOVA