Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





ANNA RAMENGHI: EROS E VENERE ALLO SPECCHIO

E' da una copia della "Venere allo specchio" di Velasquez eseguita fra l'87 e l'88 che Anna Ramenghi ha preso le mosse per la mostra in corso allo Studio Leonardi che si configura come un gioco ininterrotto di rispecchiamenti, una messa in scena di simulacri che svelano la contiguità di presenza e assenza, di particolari assoggettati ad inattese deformazioni fantastiche.
Articolando la propria operazione sulle valenze metaforiche del riflesso speculare, la pittrice ha allestito una teoria di stanze ove aleggia la presenza di Eros, evocato non solo nella ripetuta citazione iconografica ma - come afferma Giorgio Di Genova nel testo introduttivo all'esposizione - "nell'investimento che l'io creativo attua nella sua opera, ripetuta sfida a Thanatos".

s.r. (1990)

 

"LE STANZE DI EROS": SECONDO EPISODIO

Epilogo provvisorio (il cui valore topico nel percorso dell'autrice è tuttavia sottolineato dalla concomitante apparizione della monografia dedicatale da Giorgio Di Genova) d'un viaggio pittorico nell'Eros, passato dai modi ancora espressionistici dei "Nudi" realizzati intorno al 1963 alle declinazioni sintetiche, prossime all'astrazione, degli anni '70 (esemplificate da dipinti come "Amanti nell'ovale", 1974) e pervaso in ultimo d'un'intensa tonalità romantica, la mostra allestita da Anna Ramenghi nei due saloni contigui della Studio Leonardi sostituisce allo schema dicotomico assunto nel primo episodio de "Le Stanze di Eros" (ibidem, 1990) il concatenamento sequenziale del polittico, passando - come osserva Di Genova - "dal sogno-ricordo fisico emotivo allo psicodramma".
Mentre, infatti, l'evento precedente s'imperniava sulla contrapposizione d'una presenza in qualche misura infinta (la riproduzione della "Venere allo specchio" di Velasquez) e di un'assenza evocatrice (l'alcova deserta e lo specchio abbandonato di "Eros a..."), sull'antagonismo fra la seduzione esercitata dalla parvenza corporale, forse minata dal sapersi replicabile, e l'aura sospesa del desiderio, l'odierna installazione introduce dapprima nella scena abbandonata dal soggetto il registro metaforico che fa dell'elemento floreale l'equivalente, in termini di presagio e di compimento (o di "ultima fioritura"), dell'esperienza erotica.
Disperse attorno, con la "Reliquia di Narciso", le vestigia della passione fisica (la pietra fallica deposta su un libro di rose disegnate a sanguigna), il fulcro della narrazione pittorica si sposta dall'assenza di Venere (significativamente riproposta) al riconoscimento d'Amore.
La vampa luminosa che si sprigiona dalla lampada sollevata da Psiche schiarendo i toni bruni del fondo contrappuntati dal rosso dei petali sparsi ai piedi del giaciglio non ha il riflesso furtivo dell'agnizione compiuta violando il segreto d'amore ma il calore della fusione tra essenza spirituale e impulso erotico che l'assenza dei volti ed il congiungersi delle membra fanno presagire.
Così la ricerca (vera e propria quête) si conchiude con l'affiorare dalle pagine del mito d'una consapevolezza che non è per svelamento del mistero ma - come ancora scrive Di Genova - è "continua interiorizzazione", ritrovamento - attraverso l'imaginatio speciosa dispiegata nella pittura - dei discorsi o d'un dialogo con l'inconscio.

s.r. (1993)

 

 

NELLA BUFERA DI ROSE

Luogo dell'intimità, la stanza è dimora dell'immaginario, spazio liminare fra ambito quotidiano e recinto sacro, dove ciascuno preserva e sonda, insieme, quella che Bachelard definisce "la profondità del suo mistero". Legata alla dimensione del corpo, alla notte, allo sprofondamento onirico, vive di luci schermate, di fiori recisi, delle armonie che Orfeo modula per esorcizzare il silenzio.
Ma vi aleggia, nel silenzio appunto, l'inquietudine. Orfeo tace e guarda angosciato dietro di sé. Il volto di Euridice già si nasconde dietro il braccio levato. Il suo profilo, ritagliato nell'ombra, scompare nell'incavo d'un muro. Un vortice di rose turbina fra i due personaggi, quasi a materializzarne la tensione desiderante.
Come le precedenti, questa ultima stanza di Eros, allestita da Anna Ramenghi nelle sale cinquecentesche del Palazzo Imperiale di Genova, dove ha sede la Galleria Leonardi, esibisce il fervore amoroso nell'istante in cui irreparabilmente si trasforma in perdita.
Il volgersi d'Orfeo sancisce, attraverso la subitanea catastrofe, la contiguità (la consequenzialità, anzi) di desiderio e privazione. Analogamente, nell'episodio - o nell'atto, come suggerisce, ricorrendo al lessico teatrale, Giorgio Di Genova - immediatamente anteriore, la lampada di Psiche, elemento diurno introdotto indebitamente nell'atmosfera notturna (un mito sull'origine del mondo fa nascere Eros dalla Notte, fecondata dal vento), bruciava nel raggio della consapevolezza la vitalità della passione. E, prima ancora, Venere e Amore venivano sottratti al dipinto di Velasquez (riprodotto in una copia magistrale), per essere enunciati appena, nella tela appesa alla parete d'un altro ambiente, da una piuma caduta e dallo specchio abbandonato sulla coltre.
I temi evocati (cui s'aggiunge la vicenda di Narciso, dove pure è focalizzata l'inattingibilità del possesso, rammemorata in un dipinto/reliquia) paiono quindi incastonarsi in un profilo d'incompiutezza. Ma le tracce disseminate negli ambienti e nelle tele che vi hanno dischiuso nuovi spazi, negli abbozzi a sanguigna di figure sul punto di venire ad esistenza, autorizzano ad affacciare un'ipotesi difforme, che senza attutire il registro teso del ciclo, ne sonda la complessità: una lettura ove l'assenza di Eros si muta nella sua attesa e la lucerna di Psiche rischiara il trapasso dall'amor profano all'amor sacro. Ove la stessa Euridice è come salvata, seppure a prezzo di un dolore inestinguibile, nella memoria di Orfeo.
I dispositivi spiegati nelle tre installazioni, al di là degli elementi collocati nello spazio come discreto (e simbolico) contrappunto delle sequenze pittoriche, prospettano invece una inconsueta distorsione della cadenza temporale. Allo schema binario del primo allestimento, dove un prima e un dopo si giustappongono nitidamente, segue - nell'episodio di Eros e Psiche - un'articolazione risucchiata all'indietro dall'inserimento al centro della teoria dei dipinti, nell'identica collocazione antecedente, del letto vuoto di Venere a ridosso del giaciglio che Eros divide con Psiche. Laddove, per contro, nel trittico che ospita Orfeo ed Euridice il tempo sembra immobilizzarsi, facendo implodere l'eternità nell'istante.
Gli emblemi temporali dello specchio, legato alla dimensione dell'effimero, e del libro, custode del ricordo, entrambi enunciati nelle installazioni, si congiungono nella rosa, che rifiorisce di tempo in tempo; che recisa appassisce ma si conserva, unendo in sé brevità, ciclicità, durata. Immagine carnale, prefigurazione della rinascita mistica, la rosa abita necessariamente le stanze di Eros. Una, molte rose. Sparse al suolo, riposte disseccate in un angolo, impresse di slancio con le mani sulla tela.
"Vita sommessa, sorgere senza fine / riempire spazio senza prender spazio / da quello spazio che le cose intorno / restringono, non definito quasi, / come un interno puro ed in rilievo, / e delicato e raro e colmo sino all'orlo / di luce propria: c'è qualcosa / che conosciamo di simile a questo?".
Alla domanda posta da Rilke in "Die Rosenschale" Anna Ramenghi ha replicato con il mazzo di rose disteso su un panno dipinto in un ovale che precedeva la stanza di Euridice ed Orfeo. Ma il cespuglio che avvampa nello spazio legando in diagonale le figure del cantore e della sua compagna riporta piuttosto alla "bufera di rose" di cui fa cenno Ingeborg Bachmann, alla sua notte "illuminata di spine", che la ricerca d'amore ci spinge ad affrontare, inseguiti dal rombo lieve e inquietante del fogliame.

s.r. (1997)

 

ANNA RAMENGHI: LA LUCE DI EROS, IL VASO DI PANDORA

La penombra che avvolge, negli spazi - sormontati da volte un tempo affrescate - di Palazzo Imperiale, "Pandora e le altre", l'ultimo episodio del ciclo delle "Stanze di Eros" concepito e realizzato a partire dal 1987 da Anna Ramenghi, contribuisce a rivelare la natura cosmogonica depositata nei dipinti che lo compongono.
Al di là del suo risvolto teatrale, di scenario confacente allo sprofondamento nel sonno e all'irruzione del sogno, questa semioscurità accenna infatti, sia pure attraverso una parvenza attenuata, ad una condizione primordiale, presente tanto nella mitologia greca quanto nel racconto biblico. E il barbaglio di luce proiettato sui corpi - di Venere, di Pandora - nella fisicità intensa degli "incantesimi" e dei "monologhi" allestiti dall'autrice, ci rimanda sotterraneamente alla identificazione orfica di Eros con Fanes, il dio sorto dall'uovo primigenio fabbricato da Crono, il cui sembiante luminoso abbacina la Notte, alla quale si unisce per generare il Cielo e la Terra.
Il corpo (i corpi singolarmente individuati da una pittura di espressività estrema, tattile e cromatica) si pongono allora come ambito in cui s'incrociano i percorsi - oltre che tra sogno e veglia - tra origine e catastrofe, tra carnalità e trascendimento.
Con la forza di un'intuizione rattenuta ma penetrante Anna Ramenghi sembra condensare nella forma sensibile entrambe le tesi mitopoietiche incentrate sul corpo che Sergio Givone riprende nella parte conclusiva del suo "Eros/ethos": quella di Walter Friedrich Otto che, definendo il mito come teofania, ne riconosce la sede non soltanto nel linguaggio ma, prima ancora, appunto nel corpo e quella, di matrice antropologica, di Arnold Gehlen, "che ha al suo centro lo sguardo, capace di mediare tra ciò che sta in basso e ciò che sta in alto, tra bisogni vitali e significati" e secondo la quale "la conformazione del corpo può essere trasposta nel cosmo e nello spazio abitato, così come il cosmo viene ritrovato nel microcosmo corporeo".
In questa prospettiva anche la rivisitazione della figura di Pandora acquista un senso nuovo, che scava alla radice del racconto di Esiodo. La sua creazione dalla terra e dall'acqua rinvia al piano della natura (marcato nell'allestimento dalla scia che dai fiori sparsi sul pavimento si prolunga in una sequenza di dodici tavole - intitolata dall'autrice "Roseto" - trascorrenti dal bianco al rosso innalzata dal pavimento alla sommità della parete), mentre la sua bellezza e la caducità che introduce nel mondo evocano gli estremi di una corporeità che riflette la vicenda del cosmo. I corpi senza volto, effigiati dall'artista secondo un'iconografia ancestrale, rappresentano nel biancore perlaceo della carne il trionfo dell'una e, nello sfumare ardente dei contorni, il presagio dell'altra. E decisiva appare - seguendo l'argomentazione sviluppata da Giorgio Di Genova nel saggio che introduce il catalogo - l'intima adesione dell'autrice all'ultima parte del mito, ove si dice della chiusura del vaso. Pandora, non più funesta apportatrice di mali, si manifesta come custode di un'invisibile speranza, del segreto da cui muove l'amore, l'eros, che inscrive nei corpi, che insuffla nella vita la possibilità del sogno.

s.r. (2000)





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