Hozro: materiali sulle arti visive a Genova



 

 


 

 

AMERICAN POP ART A PALAZZO DUCALE

"Paradiso consumistico" od esercizio di "una celata raffinatezza", a trentacinque anni dal trionfale sbarco in Europa, avvenuto in occasione della Biennale di Venezia del 1964 (che vide l'assegnazione del gran premio per la pittura a Bob Rauschenberg), l'Arte Pop si mantiene al centro dell'interesse con una sequela di importanti rassegne che toccano in questi giorni Roma e Genova.
Mentre nella capitale è in corso, negli spazi del Chiostro del Bramante, "I love Pop", mostra con cui Achille Bonito Oliva prosegue il suo ultraventennale confronto Europa-U.S.A., si apre nella sede genovese del munizioniere di Palazzo Ducale "American Pop Art" una mostra curata da Sam Hunter, uno dei maggiori studiosi americani d'arte contemporanea (suo è il famoso manuale "Modern Art", pubblicato da Abrams) e curatore della Fondazione Leo Castelli.
Se l'interesse per l'"arte popolare" in contrapposizione all'"arte colta" si era focalizzato nei primi anni '50 soprattutto in Inghilterra, attorno all'Indipendent Group, con i collages di Eduardo Paolozzi (risalenti addirittura alla fine del decennio precedente) e di Richard Hamilton, l'elaborazione critica di Lawrence Alloway e gli slogan di architetti come Peter e Alison Smithson ("Gropius ha scritto un libro sui silos per il grano / Le Corbusier uno sugli aeroplani / oggi collezioniamo pubblicità"), è vero però che i materiali visivi cui si ispiravano queste ricerche proveniva in prevalenza dagli Stati Uniti.
Questo fatto e l'autonoma genesi storica, venuta da una reazione all'impianto esistenziale, rivolto all'interiorità dell'artista e fondato sull'espressività primaria del gesto pittorico, dominante nell'Action Painting di Pollock e Kline, dapprima attraverso gli inserimenti oggettuali, New-Dada, di Rauschenberg e Johns, poi con la radicale presa di partito per le immagini diffuse dai media (i fumetti di Lichtenstein, le bottiglie di Coca Cola di Warhol, i cartelloni pubblicitari di Rosenquist), attribuiscono alla Pop Art Americana un carattere originario ed un impatto che la mostra di cui si ragiona ripropone in tutta la sua freschezza.
Ed è proprio l'adesione naturale al soggetto, la "coscienza felice" con cui gli artisti pop americani assumono gli scenari urbani e le icone della comunicazione di massa (tipiche in questo le fotografie di Marylin Monroe e di Elvis Presley reiteratamente utilizzate da Andy Warhol) a condensare nelle loro creazioni un simbolismo latente, a farne gli emblemi di un'epoca, ancora non del tutto trascorsa, segnata dalla interscambiabilità fra merci e immagini.
La rassegna, che tocca Genova per un breve periodo dopo aver fatto tappa a Palermo, comprende opere significative, anche se non fondamentali, di undici artisti pop, dai precursori Johns e Rauschenberg (quest'ultimo rappresentato da una serie di assemblaggi degli anni '80 ove l'oggetto di recupero viene trasformato in elegante strumento compositivo) a figure meno centrali nella tendenza come Robert Indiana, che trae i propri soggetti da una segnaletica elementare e Mel Ramos, con le sue pin-ups associate al tubetto di Colgate o alla banana Chiquita.
L'artista più largamente documentato è Warhol, del quale, accanto ad un decorativo acrilico della serie Flowers (1964) compaiono inquietanti, neutre serigrafie sul tema della sedia elettrica e della morte di Che Guevara, senza trascurare accenni alle installazioni di finti scatoloni di minestre Campbell's e di pagliette Brillo alla Stable Gallery di Eleanor Ward (1964) ed ai cuscini d'alluminio (Silver Clouds, 1966) riempiti di elio e liberati in una stanza della Leo Castelli Gallery, interpretati da Calvin Tomkins come proclamazione, fatta "con un tempismo terrificante", dell'esaurimento della fase Pop.
Di Lichtenstein, assenti i celebri quadri ricavati da particolari di cartoons (del tipo di Whaam!, 1963), viene esposto Sunrise (1965), un sole che si leva all'orizzonte nel cielo scandito dalla retinatura ingrandita che gli è caratteristica e Pink Sky, uno dei lavori in cui, dando sfogo alla sua propensione per i nuovi materiali, utilizza i fogli Rowlux, una plastica trasparente trattata per suggerire un'impressione di movimento.
Fra i lavori più suggestivi figura Study for a giant Cake (1963) di Claes Oldenburg, uno dei prototipi per le sculture derivate da oggetti d'uso quotidiano che l'artista di origine svedese ha progressivamente ingrandito, raggiungendo nei suoi "large scale projects" - cui è dedicata una grande mostra a cura di Germano Celant che si inaugurerà a Venezia il 22 maggio prossimo - una effettiva dimensione monumentale.
Un autentico prototipo della pittura pop è Small red Bandana (1961), una tecnica mista di Jim Dine che ritrae un fazzoletto rosso modestamente decorato la cui semplicità crea un singolare contrasto con Das Feld der goldenen Kleider (1987/88) abbozzo di figura femminile in bronzo decorato a colori sgargianti.
Sapore parodico riveste la natura morta (Still life, 1962) allestita da Tom Wesselman, un collage ove campeggia un angolo di tavola su cui s'ammassano in disordine fette di pane, bottiglie di ketchup, pacchetti di Camel; mentre Smoker Study (1973) ripropone l'immagine forse più nota dell'artista di Cincinnati: una bocca carica di rossetto da cui fuoriesce un ondulato sbuffo di fumo.
F-111,
di James Rosenquist, rimanda all'omonimo dipinto (largo ventisei metri) realizzato nel 1965, di cui riprende anche la struttura imperniata sull'accostamento soft, formalmente gradevole, di elementi contraddittori, collocando un sorridente volto infantile accanto alla lucida carlinga di un cacciabombardiere.
Unico fra i Pop americani a praticare non occasionalmente la scultura, George Segal con The Restaurant Window II (1971), una figura femminile in gesso grezzo seduta ad un tavolino, ci propone una versione più problematica della condizione contemporanea, dove prevalgono anonimità e indifferenza. Uno squarcio utile a ricordarci che anche quando "l'arte guarda alla vita come ad un campo sterminato di segni, utili per produrre un lavoro di cosmesi estetica" (Bonito Oliva) non trascura di registrare i contrasti che marcano, pesantemente, la nostra civiltà.

(aprile 1999)





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