Hozro: materiali sulle arti visive a Genova







UGO NESPOLO: LA BELLA INSOFFERENZA


No, d'insofferenza qui ce nì'è davvero poca, d'ironia appena un tantino e nessunissima provocazione.
Ancorché ammoniti dal curatore, Luciano Caprile, a non arrestarci "alla vernice... alla periferia della conoscenza" come sarebbe tipico di chi osserva senza vedere, continuiamo a scorgere nel percorso di questra antologica una lunga marcia dall'arguzia (un tempo, sì, distillata sapidamente) alla decorazione (che è pur cosa non spregevole, ma di seconda mano)
Verrebbe voglia di richiamare dai recessi patafisici il Padre Ubu per metterlo, armato delle sue celebri "forbici da onecchie", sulle piste dell'autore - seriamente indiziato d'apostasia - tanto per provocare qualche scompiglio in questi puzzles ove (negli ultimi in specie) regna una calcolata finzione, una mimesi distaccata del gioco "carica di intendimenti e di rimandi non casuali", e disgraziatamente priva d'ogni riscontrabile difetto.
Da antichi estimatori ci sentiamo, oggi, defraudati dello humour che si annidava in opere degli anni '60/'70 come "Lavorare, lavrare" (1972, svisamento da Campana), "Quasi un autoritratto" (1972-73), in cui l'artista è effigiato in guisa d'elefante, "Andy Dandy (1973), palese satira dell'iterazione warholiana e che constatiamo smarrita invece in lavori - pur sempre vivaci e forse di maggiore eleganza formale ma, per altro verso, troppo smaliziati - quali i "Large Torn Papers" esposti nella scorsa primavera da Rinaldo Rotta, "Pannonica", "Sette-bi-due" od "I numeri sghembi", tutti del 1985.
Per riprendere una metafora utilizzata da Caprile nel testo premesso al catalogo (Edizioni Mazzotta) mutandone il segno, vien da pensare che l'acrobata ormai faccia il suo numero meccanicamente, ovvero che l'artista, ad onta delle sue anti-regole, sia divenuto prigioniero di un cliché.
Persistiamo nel condividere appieno l'idea che sia lecito, come Nespolo sostiene, "Copiare quando ci pare (questo sì che è inventare)" ma sentiamo affiorare distintamente il dubbio che ripetere sé stessi induca, prima o poi, in chi osserva e vede, il tedio.

s.r. (1986)





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