Hozro: materiali sulle arti visive a Genova



 

 

Giuliano Galletta, Mentre dormivo, s.d.




L'AUTOBIOGRAFIA IMPOSSIBILE DI GIULIANO GALLETTA

Il lavoro di Giuliano Galletta si configura come processo monotematico (ricorrente e "fissato") in cui ogni atto manifesta un carattere, nel contempo, estremo e inconcluso. E' ipotesi estetica che di continuo si applica a saggiare le condizioni della propria ammissibilità. La scrittura (principio formatore ma ricco di intimi dissensi) ne costituisce la modalità operativa essenziale. Né potrebbe essere altrimenti, di fronte ad un modo che si palesa come testo. O come inesauribile repertorio di nomi e d'immagini, di cose e di gesti. Del tutto pertinente - quindi - la progressiva sostituzione degli esercizi verbali con altri visivi, oggettuali, d'ambientazione. E così pure l'impiego di una pluralità di tecniche (collage, pittura, fotografia, film, performance, installazione) in cui taluni hanno creduto di leggere un sintomo di eclettismo, mentre non si tratta, in realtà, che d'una strumentazione versatile utilizzata nel tentativo (ostinatamente reiterato, di registrare un'autobiografia impossibile.
Se l'immagine include banalità e poesia, residuo antropologico e ironico distacco, la pittura si propone come velo monocromo, spessore che - ricoprendolo - sottrae l'oggetto alla sua concretezza e ne opera la conversione in segno, frammento depauperato di una totalità mancante.

s.r. (1985)




GIULIANO GALLETTA

  

Esercitare un'arte intellettuale comporta pure il vivere la quotidianità con una tensione che consente una penetrazione soggettivamente, affetttivamente vibrante delle forme le più diverse con cui vengono scritte le storie infinite del giorno-dopo-giorno. La' dove esse, allora, possono assumere d'un tratto sia le sembianze d'un paio d'ccchiali, sia quelle di un tic nervoso se non addirittura d'un tatuaggio, ove l'iconografia scrive segni e simboli tutt'altro che, semplicemente, personali.

Pietro Bellasi

In uno dei saggi inclusi in "Per una sociologia del romanzo", Lucien Goldmann nota come, in un'epoca nella quale nessuno avrebbe potuto prefigurare gli svolgimenti delle problematiche letterarie contemporanee, Marx - studiando le trasformazioni prodottesi nella vita sociale in conseguenza della nascita e dello sviluppo dell'economia - le poneva sul piano del binomio individuo-oggetto inerte e sottolineava il progressivo trasferimento del coefficiente di realtà, d'autonomia e di attività dal primo al secondo termine. Sul piano della rappresentazione del mondo che si riflette nella creazione artistica questo processo si definisce nei termini di una graduale scomparsa dell'individuo in quanto realtà essenziale e con il costituirsi degli oggetti in "universo autonomo avente una propria strutturazione che sola permette ancora, ma raramente e difficilmente, all'umano di esprimersi".
Nel romanzo (forma cui Galletta esplicitamente si richiama nel sua operare, che va perciò inteso in termini complessivi, di continuità, piuttosto che nel caratterizzarsi dei singoli episodi) al deperimento radicale del "personaggio" si accompagna una prise de pouvoir da parte delle cose; all'azione, divenuta impossibile, si sostituisce un configurarsi trasversale, mediato dagli oggetti nei quali l'elemento soggettivo si trova per cosi' dire incorporato.
Gli oggetti sono "lo sguardo che li vede, il pensiero che li rivede, la passione che li deforma" (Robbe Grillet): a loro volta subiscono, quindi, una metamorfosi ossessiva che nel lavoro di Giuliano Galletta risulta evidente.
Non altro senso ha il suo collezionare reperti inutilizzabili estratti dal quotidiano secondo le modalità della citazione anziché nell'ottica usurata dello straniamento, rinforzandone - at- traverso uno strato di colore, l'inserimento in un apparato ostensivo od, anche, il rapporto con una frase (una citazione, di nuovo) sintomatica - l'aspetto esemplare. L'autore stesso si reifica, evocandosi ironicamente per il tramite della propria immagine, rimarcando nella "moltiplicazione della figura" il ruolo di assenza che si propone di giocare. Un ruolo che, se "cerca di spostare il linguaggio dal posto in cui di trova" (Esterhazy), se può giovarsi di tratti contraddittori e della falsificazione, non concede spazio all'ambiguità, semmai ad una dissimulata componente drammatica: tale l'inscrivere l'opera entro l'ambito delle convenzioni estetiche, la deliberata volontà di farne ornamento nella consapevolezza che "il piacere è una distrazione imperdonabile per chi è costretto a vegliare la propria morte per sentirsi vivo" (Lea Melandri).

s.r. (1989)



NO COMMENT

Di fronte all'ingresso un divano imponente, drappeggiato di stoffa nera, al centro d'un ambiente buio. Alla parete è sospesa, obliqua, un'antica stampa. Sparsi sull'impiantito - aperti, in meditato disordine - due o tre libri. Per un andito si accede ad una stanza ostruita da una moltitudine fredda di sedie pieghevoli, mezzo velate da riquadri di tela bianca con grandi macchie rosse di vernice. Di qui una porta immette in un vano dove un albero di natale sovraccarico di decorazioni s'affianca ad un tavolino basso coperto da una tovaglia dorata che sorregge una tazza vuota, reperto di un'implausibile cerimonia del té.
Una sequenza puramente incongrua, che si astiene tuttavia dal far leva sull'insensatezza (e sull'irrilevanza) degli accostamenti per sbalordire, creando una deriva abbreviata e traumatica, e si limita invece a segnalare uno stato di pericolo ("La casa pericolosa / è quella dove ho vissuto", scriveva anni fa' l'autore) o d'insofferenza, registrando pagine del testo dissonante d'un io ("quello stupido pronome") barthesianamente moltiplicato e, insieme, abbozzando un catalogo beckettiano di "cose insopportabili", che ci mantengono legati al mondo cui ineriscono e del quale osiamo sperare di non esser parte.
Nessuna apologia degli oggetti, quindi, della loro resistenza fenomenica al dissolvimento nel flusso di coscienza; nessuna anceschiana presa di partito per una "poesia in re". E nemmeno un'effettiva hantise de abolir, bensì una constatazione (non certo impassibile) degli "effetti devastanti" che la realtà, o ciò che ne resta, continua ad esercitare "sullo spirito e sul corpo umano".
In questo scenario, in qualche modo costruito a posteriori, "non è l'essenziale che manca, ma essenziale è la mancanza" (Virilio). Più che una "estetica della sparizione" (sparizione, beninteso, del soggetto) vi si manifesta però, nel continuo sovrapporsi del registro ironico al patetico, un'impossibilità a trovar luogo ("Sono / soltanto / qui". "Non sono / neppure / qui". - recitano due frammenti antitetici della raccolta pubblicata da Galletta in concomitanza con questa rassegna) nello spazio fra unten e oben, tra fattualità ed immaginazione, nella fictio realistica del diario. Uno spiazzamento che, se non determina alcuna difficoltà nell'agire quotidiano (nè tanto meno nostalgie edeniche), non rinuncia alla sua dignità sintomatica di "tensione oscura" fra terrore e meraviglia, né si fa scrupolo di stabilire cortocircuiti beffardi fra l'estremismo kitsch ed il satori infantile che può ricavarsi da un Christmas tree esibito in primavera inoltrata, o fra la sanguinolenta parvenza della vernice e le sofisticate screziature del sangue.

s.r. (1990)




Giuliano Galletta, A Lourdes!, s.d.





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