Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





LA PRIMA VOLTA DI FABBRI AD ALBISOLA

Giunto al culmine di una carriera che lo ha visto allestire antologiche in sedi prestigiose quali il Wilhelm Lehmbruk Museum di Duisburg ed il Ludwig Musem di Colonia, ripetutamente invitato con sale personali alla Biennale di Venezia e presente con opere monumentali in diverse città italiane,. studiato in monografie pubbicate in Italia ed all'estero (ultimo il prezioso volume curato per la Cassa di Risparmio di Savona da Silvio Riolfo Marengo), Agenore Fabbri si presenta per la prima volta nella cittadina ligure in cui risiede da oltre cinquant'anni, quell'Albisola che Jorn diceva esser più nota nella cerchia internazionale degli artisti - in virtù sia della secolare tradizione ceramica sia della singolare concentrazione di talenti - della stessa Milano, con una mostra allestita presso il Centro Culturale Arte Contemporanea Balestrini.
Nativo di Pistoia (Tullio Mazzotti lo definirà "giovane etrusco"), Fabbri si stabilisce ad Albisola a ventiquattr'anni, nel 1935, nutrito dei fermenti assimilati nell'ambiente fiorentino dell'epoca, segnato da personaggi della statura di Montale e di Rosai.
I suoi esordi sono accompagnati dall'avallo non solo di un critico consacrato come Leonardo Borgese ma d'un poeta sensibile - giudice discreto quanto perspicace - come Angelo Barile, pronto a cogliere, nell'ingegno dello scultore, una propensione naturale "a intendere l'umano, a sentire il richiamo d'un volto, a scoprire la ragione d'una carne, la tristezza o la volontà d'una ruga, il mistero d'una fisionomia: a esplorare attraverso il reale il difficile regno dell'anima" poi maturata in essenziale tensione drammatica, in una consapevolezza della ferita che l'esistenza incide nell'uomo che lo farà descrivere da un altro poeta, Rafael Alberti, in veste di "scultore della rabbia, terribile amico contagiato ... dalla cieca frenesia del nostro tempo" che nella materia furiosamente plasmata versa "gocce di luce che lottano per illuminare un giorno l'universo".
Fra le opere raccolte da Franco Balestrini, oltre ad alcune tempere dei primi anni Cinquanta, a due "lacerazioni" (cupi pannelli in legno con squarci evidenziati da interventi di color rosso) ed ai "giardini" che rappresentano l'ultima, vivace fase pittorica dell'autore, si contano quattro sculture - assai belle - eseguite fra il 1947 ed il 1951: "Toro morente", una ceramica che appare, secondo un'espressione di Russoli, "calco ancora caldo" dell'animale sorpreso dalla lava; l'arcaica figura immota della "Donna che piscia"; una "Deposizione" in terracotta policroma, complessa costruzioni di corpi avvinti gli uni agli altri in una spasmodica contrazione dolorosa. Ultima (ed è, forse, l'esito migliore) "Rissa fra uomo e cane", un viluppo di membra in cui la stessa ferocia del combattimento sembra imporre un andamento curvilineo in certa guisa armonioso.

s.r. (1989)





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