Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





STEFANO D'AMICO A VILLA CROCE

L'evocazione nostalgica di un mondo nel quale "ancora non si è perduto il contatto con la natura e con i ritmi biologici della terra e degli astri", dove nei toni caldi degli smalti campeggiano tori e puledri, santoni e cacciatori, pellegrini e naufraghi, ed il rigore costruttivo, dispiegato in grandi strutture metalliche articolate attorno alle problematiche della percezione pura dello spazio e della luce, costituiscono le polarità opposte entro cui si è sviluppata, nell'arco di un cinquantennio, la ricerca di Stefano D'Amico. A ricostruirne le tappe, in una sequenza che evidenzia gl'intrecci tra gli svolgimenti personali ed il susseguirsi delle tendenze artistiche contemporanee, vengono ora un'antologica, allestita nel Museo di Villa Croce, ed un catalogo delle opere, arrichito dai testi di Cecilia Chilosi e Guido Giubbini.
Decisivo per l'artista, le cui esperienze formative si erano svolte in prevalenza fra Palermo e Roma (dove nel 1950 frequenta brevemente i corsi di Mafai, entrando in rapporto con gli artisti del "Fronte nuovo delle arti"), è l'approdo, nel 1953, ad Albisola, suggerito da Emanuele Luzzati. Qui il giovane scultore non solo ritrova Fontana, Scanavino, Baj e Dangelo, che aveva conosciuto poco prima a Milano, ma ha modo d'incontrare artisti come Jorn, Lam, Corneille e di approfondire, lavorando alla fornace di Bianco a Pozzo Garitta, le tecniche di lavorazione della ceramica, che coltiverà, fino al 1965, in maniera esclusiva, anche in funzione delle frequenti commissioni ottenute per la decorazione di nuovi edifici e di locali di rappresentanza.
Ad una prima fase, dominata da una vena affabulatoria, in cui affiorano le radici siciliane e, più in generale, mediterranee dell'artista accanto ad influenze di Picasso, di Marino Marini e del Fontana neo-barocco (in particolare ne "Il Re Sole", 1960, o nel concitato "Cavaliere vittorioso"), fa seguito un momento in cui l'articolazione spaziale si fa più distesa, raggiungendo in bassorilievi come "Terra vergine" (1960) e "La buona terra" (1964) un rarefatto ma intenso equilibrio ed un'originale sintesi di segno e figura.
Attorno al 1965, quasi in coincidenza con l'incarico d'insegnamento assunto presso il Liceo Artistico Barabino di Genova, l'interesse dell'artista comincia (con la serie dei "Progetti di villaggio mediterraneo" e dei "Giochi") a concentrarsi su moduli costruttivi con un raffreddamento progressivo che si manifesta anche nel passaggio dalla ceramica all'uso di una materiale "freddo", come il ferro. In questo radicale (seppure mediato) passaggio da forme liberamente espressive, al limite dell'informale, ad impianti geometrici, replicati ed accostati in serie, l'artista mostra comunque una predilezione per gli andamenti curvilinei (particolarmente evidenti in "Orizzontale fluido n. 1") o per le agglomerazioni ("Organismo numero sette") che costituisce un retaggio delle fasi anteriori e, nella seconda metà degli anni Settanta, diviene la caratteristica dominante della sua opera.
"Forza sette", "Vento in poppa", "Nell'occhio del ciclone" sono i titoli dei rilievi in terracotta, mossi da volute, attraversati da creste e scaglie, in cui D'Amico passa in quel torno di tempo a trasfondere l'impronta di energie primordiali, dando corpo - come nota Cecilia Chilosi - ad "una sorta di universo aprés déluge, popolato di surreali e minacciose forme fossilizzate".
Ma questo agitato, talora cupo, scenario, dal quale le forze elementari della natura sembrano aver cancellato ogni traccia della presenza umana, si tempera nella coeva produzione scultorea, negli incavi armoniosi de "La piccola vestale" o del bellissimo "Migratore in riposo", per ribaltarsi infine nella festosità cromatica degli ultimi piatti murali cotti a gran fuoco, "Giardini" traboccanti di piante d'un verde luminoso.

s.r. (1999)





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