Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





COSTA: L'ENERGIA CHE VIENE DAL PASSATO

Work in regress, lavoro all'indietro, è l'espressione che Claudio Costa ha sovente impiegato, dal 1977, per definire la propria operazione artistica, volta ad individuare - nel passato - '"origine" dell'esperienza umana, una relazione primaria con gli eventi e le cose della vita.
Si tratta d'una enunciazione che può venir estesa altresì - senza prevaricare, al periodo immediatamente anteriore, marcato dagli esiti di "Evoluzione-Involuzione" (1971 ss.) ove l'artista genovese, rovesciando il procedimento scientifico tradizionale, ripercorreva le tappe evolutive fissate dalla Paleontologia a partire da calchi delle proprie membra, risalendo a ritroso verso la preistoria sino all'Uomo di Cro-magnon ed all'Australopiteco.
Già in queste prove (fra le maggiori del percorso di Costa) affiorava, infatti, la convinzione "che il destino dell'uomo fosse segnato dalla condanna ad evolvere continuamente, a perdere radici ed appartenere al futuro sperandolo come un tempo sempre migliore e facendogli dimenticare di vivere il presente", così come "Inventario delle culture" una serie di vetrine contenenti "tracce" di culture primitive differenti, realizzata nel 1975) si legava all'idea dell'unicità dell'origine umana e della rassomiglianza dei suoi miti.
In questi ultimi anni la considerazione del passato (o, meglio, del primitivo) come luogo del magico, del mito e del rituale in cui può attuarsi un ricupero d'intensità vitale, ove attingere un energia capace "di portarci al volo" è esplosa in una sequenza di grandi opere (presentate fra l'86 e l'87, in prima battuta a palazzo Forti, a Verona, e, in Kraftzellen, al B.B.K. di Monaco) che prende le mosse da un viaggio compiuto a Lascaux nell'85, con un riferimento alla pittura rupestre di quelle grotte, di cui i disegni ora esposti (sino al 19 marzo prossimo) a Chiavari da Cristina Busi costituiscono un'efficace prosecuzione.
Disegni sui generis, d'altronde, dal momento che Costa v'introduce quella propensione all'assemblaggio di materiali (sabbia, cera, foglie, lamiere metalliche ecc.) e d'oggetti che è da sempre caratteristica del suo lavoro, pervenendo ad una sorta di "disegno-scultura", ad un ibrido ove le figure totemiche, le scene di caccia, le maschere, i profili di guerrieri sembrano nutrirsi e trarre forza dagli stessi elementi fisici da cui sono formati.

 

s.r. (1989)

 



PER CASE DI RUGGINE
Claudio Costa al Centro Balestrini

Invertire la freccia del tempo, intraprendere il viaggio verso l'origine, sostituire il margine al centro, l'oggetto d'uso al manufatto estetico: nella sua presa di partito contro le convenzioni culturali della modernità (una modernità da cui fuoriesce, ripetendone a ritroso il processo evolutivo, attraverso le porte del mito e dell'archetipo, anziché da uno scivolo post/istorico) a Claudio Costa è occorso più volte di doversi misurare con i modelli invalsi - nell'arte come nelle scienze, in specie antropologiche - di vedersi costretto ad introiettarli, a divorarli per potersene distanziare.
Se ciò si verifica, macroscopicamente, per la vicenda umana il cui svolgimento viene capovolto nello scarto da Evoluzione a Involuzione, non manca tuttavia d'accadere in una prospettiva più specificamente artistica dove - correlativamente - all'apertura joyciana dell'opera ad un'integrazione a venire si oppone il lasciarsi risucchiare, in regress, dalla vis attractiva dell'inizio.
Né stupisce che in questo ribaltamento vettoriale la maggior resistenza si riscontri nella sfera della contemporaneità, che l'agonismo più deliberato si concentri attorno al "polo ruotante" di una situazione ancora in atto. Rovesciare Duchamp, ripeterne al contrario le mosse, diviene così un rituale di affrancamento dal dominio splenetico dell'ironia, che si estrinseca - fra l'altro - nella restituzione dell'oggetto (nei suoi aspetti costruttivi, strumentali, simbolici) al contesto dal quale lo aveva astratto il procedimento di selezione arbitraria del ready-made.
L'oggetto, disimpegnato dalla connotazione apatica in cui risultava confinato, recupera nel lavoro di Costa non soltanto il proprio statuto di cosa ma un riflesso vivente, un'individualità che - pur nell'assimilazione ad un tipo - gli è conferita dall'uso e dal suo stesso logoramento, quasi una memoria depositata in superficie.
L'attenzione prestata al mutarsi dell'oggetto, benché funzionale all'ampliamento del suo spessore di significati, è altresì spia di un interesse profondo per la trasformazione dei materiali, testimoniato dalle esperienze compiute all'inizio degli anni settanta con gli amidi, le colle, gli acidi (utilizzati per produrre una modificazione del supporto-tela suscettibile di protrarsi nel tempo) e destinato ad innestarsi attorno alla fine del decennio su un repertorio alchemico.
Trasformazione dei materiali e recupero dell'oggetto entrano nei lavori ultimi di Costa, le "Ruggini", come elementi di continuità con le sue ricerche precedenti ma non senza due varianti di rilievo: sotto il primo aspetto l'artista sembra guardare esclusivamente al risultato dell'azione già esercitata dagli agenti atmosferici, senza originarlo tramite il proprio intervento personale, come in passato; per quanto concerne il secondo viene invece emergendo un preciso interesse (già accennato nel ciclo "Insettitudine", 1983, o nelle "macchine alchemiche" dell'86/ /87) per la suggestione analogica promanante dall'oggetto rinvenuto. Fissate su lastre di cristallo ("piccoli vetri" di contro al "Grande Vetro" per marcare, una volta ancora, il sovvertimento della posizione duchampiana) le ruggini, lamine sottili nella cui patina friabile incorporato il fluire del tempo, utilizzate a loro volta come supporto screziato per l'assemblaggio di altri reperti, divengono fogli ghiacciati, isolati dal fluire degli eventi, di un album primitivo di tracce e classificazioni dove la gamba biforcata d'un mobile si converte nella testa stilizzata d'un animale, un ramo ricurvo nel profilo d'una capanna, una sega rovesciata nello scheletro d'un insetto.
Pagine, quindi, ma - insieme - pelli, pareti, rocce graffite: possibili frammenti di'una dimora di ruggine che, sebbene rinvii nell'omologazione materiale alle "Case di Fango" (1976), si distacca dall'invasività greve del rivestimento motoso per dar luogo ad un habitat privo di ridondanze, ove le componenti energetiche, sempre dominanti nell'opera di Costa, si riversano in rigoroso e agevole scorrimento estetico.

s.r. (1990)



CLAUDIO COSTA

 Entro un orizzonte prevalentemente antropologico (ma aperto ad un ventaglio di suggestioni fortemente intrecciate: dalla paleontologia alla mitologia; dall'allegoria all'alchimia) si svolge l'itinerario artistico di Claudio Costa. Agli esordi, nei primi anni '60, sotto il segno della ricerca dubuffetiana sull'art brut - tematica cui in anni recenti l'artista ha dato coerente sviluppo con la fondazione dell'Istituto per le Materie e Forme Inconsapevoli (1989) presso l'Ospedale Psichiatrico di Genova-Quarto - fa seguito l'esperienza formativa condotta presso l'Atelier di William Stanley Hayter a Parigi dove, a partire dal 1964, approfondisce le tecniche calcografiche ed incontra Duchamp, polo di riferimento e di confronto costante del suo lavoro, come più tardi Beuys. Con il rientro in Italia, dopo il maggio parigino, Costa inizia ad utilizzare materiali estranei alla tradizione artistica, come grafite, amido, colla di pesce, acidi. Se l'impiego di queste sostanze allo stato puro lo avvicina, sotto un certo profilo, alle ricerche di ambito poveristico, la diversa inclinazione di fondo del suo lavoro, dapprima latente, diviene esplicita con la pubblicazione (1972) del volume Evoluzione-Involuzione (il tempo trasportato, lo spazio perduto) , ove definisce i termini di un'arte antropologica volta alla riscoperta dell'identità umana. In questa fase il suo lavoro, pur assumendo modalità tipiche dell'indagine scientifica (nella ricostruzione dell'uomo primitivo attraverso l'accostamento sequenziale di teste, mani, piedi, dall'Homo Sapiens-Sapiens all'Australopiteco, realizzate in terracotta dipinta), inizia ad evidenziare la caratteristica tendenza ad articolarsi in cicli tematici di ampia portata. Inoltre l'inversione del procedimento rispetto alle metodiche dei paleontologi, che muovono dall'antico per giungere al recente, contiene in nuce la successiva teorizzazione (1977) del Work in Regress. Nel periodo successivo, che vede la partecipazione di Costa alle principali rassegne europee dedicate all'arte d'ispirazione antropologica, quali Spurensicherung (Amburgo 1974) e Archeologia degli Umani nell'ambito di Documenta 6 (Kassel 1977), si precisa anche il rapporto con l'oggetto, che - in un primo tempo soprattutto ricostruito, poi variamente assemblato od alterato - acquisisce un ruolo primario nell'operare dell'artista. Al di là degli influssi di ascendenza dadaista (Schwitters) o surrealista (Cornell), l'attenzione si calibra sulle valenze culturali e sulle potenzialità evocative (in direzione simbolica quanto metaforica) del reperto, sottoposto ad un processo non di straniamento ma - come ha osservato Enrico Pedrini - di ripaesamento per cui si giunge ad erigerne l'habitat in Museo (Museo di Antropologia Attiva di Monteghirfo, 1975). "Costa non lavora servendosi semplicemente del già fatto come nel ready made classico, ove cioè l'oggettualità", scrive Enrico Crispolti, "serva al trasferimento dissacratorio di esteticità sull'oggetto comune, modificato o meno. Ma lavora piuttosto sul già vissuto recuperato nella sua capacità appunto magico-memoriale, contro l'intenzionalità di mera costruzione di un manufatto estetico". Di qui il naturale e vieppiù profondo coinvolgimento, nel corso degli anni '80, nelle dimensioni mitopietiche ed alchemiche, cui fa riscontro l'acquisizione di una maggior complessità compositiva, anche a livello spaziale, mentre si amplifica l'uso dei materiali, in particolare con la scelta di metalli, come nel ciclo delle I colori e i segni delle ruggini (1989) e di maschere tribali, anche in rapporto ai contatti con gli elementi arcaici della cultura africana, sperimentati in soggiorni di studio e di lavoro in Kenia, Uganda e Senegal, e trasfusi nel ciclo dei Lavori africani (1990).

s.r. (1995)

 





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