Hozro: materiali sulle arti visive a Genova







IL CARRO DI FUOCO

Un intreccio di reminiscenze mitologiche s'innesta attorno a "Il Carro di Fuoco", impropriamente - per un verso - ma esattamente, anche. Giacché si tratta di materiali utilizzati non in conformità ai canoni della "citazione" ma sedimentati in un deposito di memorie da cui affiorano sciolti da ogni incrostazione culturale, nella loro originarietà metaforica.
Gli elementi dell'installazione (la cui qualità mimetica: cartapesta anziché legno, sfumato in luogo d'ombra, metallo per luce - non s'indirizza al trompe-l'oeil bensì verso l'illusione nel senso più ampio, non semplice simulazione del reale ma suo trascendimento) richiamano, nella ruota infranta, la corsa precipitosa di Fetonte: nell'ala rescissa, il volo d'Icaro.
Corsa e volo che si danno come un paradigma autobiografico, che si risolvono, eloquentemente, in un tuffo, nella discesa in un cono d'ombra al cui termine un punto segna un'origine che (secondo l'espressione di Karl Kraus) è - nel contempo - la meta.
La relazione fra elementi contrari (luce / ombra: caduta / ascesi) più che uno schema dialettico pare sottenda un regime di assolute equivalente. Il disco che qui scorgiamo luminoso racchiude - nutre, forse - il soleil noir di Nerval. Ma certo il lavoro è più ricco, più vario d'impulsi rispetto a quanto ho sin qui accennato: colpisce - sotto il profilo formale - la ponderazione dei toni aurei, dei neri, dei grigi; l'equilibrio suggerito dai moduli triangolari, sottilmente legati e disgiunti; i motivi circolari che, in scala differente, si riprendono in diagonale...
Vicino, come sospeso nell'aria, un corno inglese s'innalza, inconsueta girandola d'ottone, all'apice d'uno guglia. Il suono è abolito, dissipato secondo la sua essenza o rifluito nelle cavità dello strumento, prossimo a rimutarsi in fiato. Una "trottola" è posta più in là, acuminato, precario sostegno su cui si tiene in equilibrio il mondo.
>Resi con cautela alla superficie, i frantumi (le reliquie) delle cose - un tempo disseminati a designare la traiettoria dei sentimenti, a fissare l'intermittente costellazione del ricordo - si fondono ora (non a caso rivestiti d'una color bronzo) in attrezzi o monumenti enigmatici, la cui inerzia esteriore lascia supporre una segreta, più vivida, concentrazione d'energie.

s.r.

(dal catalogo della mostra Il canto della clessidra, Galleria Unimedia, Genova 1985)



LA PICCOLA FRASE DI PIERGIORGIO COLOMBARA

L'opera di Piergiorgio Colombara è scandaglio affondato negli strati della memoria, una "piccola frase" musicale attraverso cui diviene possibile sfiorare le radici del mondo. Predilige l'evocazione, l'accenno, ma non rifiuta di misurarsi con la propria antitesi: la cortina oscura che vela il quadro, l'ostica freddezza del metallo. Anzi la assume, la implica per operarne la trasformazione, ora - alchemicamente - in impronta aurea, ora - invece - in un profilo. O la sfrangia d'un pulviscolo, la riscalda di colore, la cela in un'ombra.
Incombe su questa scena il manto della Regina della Notte o vi cova piuttosto la fiamma sacra di Sarastro? Su questo i reperti tratti in superficie (brandelli di carta, ali, ampolle, foglie) non forniscono lumi: sono lì posti a smentire la caducità del ricordo, a ricomporne una traccia tanto frammentaria quanto allusiva.
Perché la cornice metallica dell'icona (a questo motivo si connettono i lavori più recenti) non circonclude, per l'artista, uno spazio mistico ma custodisce una cronaca. Un resoconto di cui possediamo solo brani isolati. Né soccorre il sopraggiungere del messaggero: le sue parole risuonano, anch'esse, enigmatiche. Le nuove che reca, occorre divinarle.

s.r. (1985)



PIERGIORGIO COLOMBARA

Tra le presenze artistiche che - a partire dalla seconda metà degli anni '70 - hanno segnato il clima genovese, quella di Piergiorgio Colombara è, nel contempo, una fra le più sommesse e le più incisive.
Se, infatti, da un lato il carattere schivo lo induce ad evitare ogni forma di protagonismo fine a sé stesso, dall'altro la qualità dell'opera ne fa un punto di riferimento sicuro per chi dal lavoro creativo attenda non un prodotto conforme alle consuetudini stilistiche vigenti ma una ricerca che rivesta un carattere indiscutibile di autenticità.
Nel suo percorso una rilevanza del tutto particolare assume, all'inizio del decennio in corso, la collaborazione con il compositore Amedeo Gaggiolo, da cui trae origine la personale tenuta (dopo l'esordio alla Galleria Balestrini di Albisola ed una successiva esposizione al Brandale) allo Studio Gomma Gutta nel 1982.
Nella presentazione della mostra Viana Conti sottolineava il carattere di "musica visiva" del lavoro di Colombara, il suo articolarsi - muovendo da un segno grafico iniziale - in una griglia/partitura che, "strutturando visivamente la superficie della tela, crea un campo di eventi" contiguo alla sonorità musicale.
Nell'opera successiva si precisa gradualmente una dimensione propriamente memoriale che costituisce la cifra dell'installazione presentata all'Unimedia nel 1984, ove una sequenza di frammenti oggettuali recuperati (consunti e fragili ma perciò stesso preziosi) dalla profondità del ricordo è applicata alla parete, ad accennare una trama di vicende di cui solo attraverso un procedere a ritroso diviene possibile intuire il senso.
Viene qui introdotto, adombrato nella metafora del messaggero (dell'"angelo", se si vuole), il tema dell'annuncio non svelato che non soltanto appare congeniale alla misura espressiva di Colombara ma sembra identificare, più in generale, uno dei tratti essenziali dell'operazione artistica.
In questi ultimi anni è venuta accentuandosi la propensione dell'autore per la scultura praticata non con l'intento di modellare materiali bensì mirando, piuttosto, alla costruzione di oggetti di spazialità complessa in cui permane il gioco tra componenti artefatti e objects-trouvés, tra sentimento intimamente vissuto ed autoconsapevolezza ironica (in una cadenza prossima al fantastico eichendorffiano).
E' il caso, ad esempio, de "La Clessidra" (1985), lavoro che si presenta come un cono alto e sottile in metallo, sormontato dalla voluta d'un corno, in cui si stabilisce un'identità ricca di implicazioni fra musica e silenzio, solllecitando attraverso l'esperienza del limite l'ampiezza delle possibilità espressive. Così come anche delle recentissime "Sculture senza suono" esposte nel 1988 a Zurigo, in una mostra tenuta con Stefano Grondona presso la Galleria Colonie Libere Italiane.

s.r. (1988)



SILENZIO DELLA SCULTURA

Antichi adagi e romanzi recenti (quello di Stephen Nadolny in testa) imbastiscono l'elogio o pretendono addirittura di segnare la "scoperta della lentezza".
Che si tratti d'una virtù basterebbe a dimostrarlo il numero ristretto di coloro che se ne fanno seguaci. Da secoli, d'altronde, Zenone insinua il dubbio che la velocità non sia poi così rapida e che un lento procedere non equivalga ad un surplace. Anzi: ciò che nel diffuso motto popolare riveste una reale importanza non è la presunta sicurezza dell'itinerario pacatamente percorso bensì la capacità mostrata da quanti si muovono senza furia di raggiungere le mete più lontane.
Lungi dall'impressionarci negativamente, l'intervallo trascorso dalla mostra tenuta da Piergiorgio Colombara all'Unimedia nel 1985, ove per la prima volta si affacciava il tema delle "sculture senza suono" ci fa presumere in uno con la serietà del suo impegno la profondità del risultato.
Preceduta da una sequenza di manifestazioni ("Passione", Oratorio di S. Maria Assunta, Albisola Superiore, 1987; personale alla Galleria Colonie Libere Italiane, Zurigo 1988; partecpazione alla rassegna "La Jeune creation en Europe", Art Jonction International, Nizza, 1988; e, ancora, l'apparizione del dicembre scorso alla Polena) la mostra ora allestita negli spazi dell'Unimedia di Caterina Gualco costituisce infatti il momento maggiore intensità e, nel contempo, di maggior organicità ed ampiezza del suo discorso.
Può sorprendere, se mai, il rivolgimento di senso al suo interno: il titolo che marcava l'esposizione di quattr'anni or sono ("Il canto della clessidra") par contraddetto senza titubanze dall'attuale ("Sculture senza suono"). E questo sebbene il lavoro su cui s'imperniava il primo evento - una lunga, affusolata struttura composta da un cono sottile culminante nella voluta d'un corno - figuri anche, colato da non molto in bronzo, in quest'ultimo.
Nè si tratta di un'impressione ingannevole. Qualcosa è mutato in effetti in quest'arco di tempo: quasi che la ricerca si fosse dislocata dalla parvenza all'assenza, dall'eco a quello stato "silente" che De Chirico asseriva esser proprio della natura.
Ma Colombara non batte la via della metafisica, la messinscena dell'incognito, del rarefatto stupore che starebbe oltre le cose.
La sua è piuttosto un'architettura del pensiero che si protende verso il limite che gli è connaturale, verso quella forma assoluta di consapevolezza cui la metafora dello strumento muto (strumento incongruo, talora impossibile - come in "Senza suono I", che contempla più d'uno sbocco ad un fiato che risulta impossibile immettere e modulare - talaltra dissimulato, in "Caminetto", 1988, od in "Torre rosa", la cui base è costituita da un megafono) costantemente rimanda, svelando nel silenzio ove l'audizione è assente - ma, secondo Valery, "l'udibilità esiste ed è percepita, sotto forma d'attesa" - la "percezione del puro potere d'intendere".

s.r. (1989)



IL SILENZIO DELLA CANTORIA

Frammenti di un'estetica del silenzio si scoprono disseminati, senz'ordine apparente, nella molteplicità dei tracciati (più o meno spontanei) in cui si dirama la ricerca artistica contemporanea.
Senz'essere uno dei crocevia più frequentemente battuti (ed anzi, a dire il vero, neppure un effettivo punto d'intersezione bensì un subitaneo interrompersi del sentiero) il carattere di esperienza limite palesemente intrinseco al silenzio ha condotto a misurarvisi molti fra coloro che hanno secondato le correnti centrifughe dell'avanguardia. I Futuristi, ad esempio, che nel manifesto dedicato nel 1933 alla radiofonia parlano di "delimitazione e costruzione geometrica del silenzio" e la praticano nelle sintesi marinettiane. Isou, che nel teorizzare l'avvento della composizione fonetica lettrista enfatizza il valore della pausa di silenzio ("granulation du neant") facendone dapprima la radicale antitesi al momento sonoro e quindi, con l'"aphonisme", un autonomo campo di sperimentazione. John Cage, che nelle sue nitide provocazioni ribalta il limite in impossibilità ("Non esiste il silenzio. Accade sempre qualcosa che produce un rumore").
Ma se il "nichilismo civettuolo, persino allegro" di questi appelli al silenzio (di cui, commenta ironicamente Susan Sontag, l'"arte del nostro tempo risuona") non rappresenta che un aspetto - il più macroscopico forse, ma non il più penetrante - del confronto con le dimensioni del silenzio.
Se altre demarches possono risiedere nell'afasia, nella condizione - evocata da Celan - di "un io fuggito nel mutismo", o nella consapevolezza dell'impotenza del linguaggio di fronte all'esigenza di significazione del mondo, cui Hofmannsthal ha dato espressione nell'immaginaria brief di Chandos a Bacone, va rimarcato come il silenzio non possa stimarsi condizione meramente negativa, semplice reticenza del discorso.
In esso deve cogliersi piuttosto - suggerisce Jankelevitch - il rapporto complesso che s'instaura tra "il nulla di una sola categoria di sensazioni e la pienezza di tutte le altre", mutando lo stato di cose ordinario: così la musica, sopprimendo la parola, "rumore umano per eccellenza", diviene forma privilegiata di silenzio.
A sua volta, la scultura di Piergiorgio Colombara si vuole silenzio della musica. Musica che - sebbene direttamente richiamata da configurazioni plastiche desunte da strumenti (le canne d'organo, nella "Cantoria") o da oggetti comunque sonori (nella "Conchiglia") ove si distinguono, incorporate senza peraltro tentare una puntigliosa trascrizione in termini visivi della misura musicale, cadenze ritmiche inscritte in un complessivo andamento armonico - sembra trovare nel silenzio il proprio ideale compimento, in uno spazio cui l'assoluta interiorità conferisce una prospettiva ulteriore, svincolata da ogni pratica sensibile.
In questi ultimi lavori, la consueta interpolazione nell'ambito rappresentativo di elementi oggettuali (che si ripropone, affondata in un alone di materia neutra, ancora una volta silenziosa, nella sequenza delle "cere") viene dismessa per dar luogo, nella ceramica, ad una mimesi totale, mentre la superficie nera, alternativamente opaca od attraversata dal metallico balenare del piombo, assorbe la varietà del colore, attenuando il riflesso emotivo che rame ed ottone instillavano nelle sculture precedenti, già tuttavia connotate da una sonorità assente.
Qui il silenzio trova esemplare enunciazione metaforica nella fiamma vitrea sprigionata dalla conchiglia: ampolla affusolata e bizzarramente contorta, che altro non custodisce se non levità imperturbata e trasparenza.
In questo comporsi senza tensioni d'opacità e trasparenza, di splendore metallico e d'affioramenti di terracotta grezza, si esplicita il tratto di fondo dell'opera di Colombara. Che non risiede nell'esplorazione d'un linguaggio tacito o nell'abbozzo d'una musica insonora, ma nel tentativo ("sforzo assurdo", secondo Merleau-Ponty, e tuttavia ineludibile) di assicurare durata ad "un certo silenzio che è in lui e che egli ascolta".

s.r. (1990)







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