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ANTOLOGICA DI CHIANESE A VILLA CROCE

Nel secolo delle avanguardie, dopo l'avventura di Mondrian che dalla forma-albero deduce una semplificata trama ortogonale, dopo l'ironico epitaffio di Picabia che mima infantilmente un panorama con piume e stecchini, coltivare la pittura di paesaggio può apparire impresa fuori tempo, consegnata senza rimedio alla ripresa di modelli ottocenteschi. Lo spazio non contaminato da facili epigonismi e da prese di partito antimoderne che nella prima metà del secolo era presidiato dalle forti presenze di Morandi e Carrà, di Bonnard e di Nolde, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale viene ad essere progressivamente sguarnito. Gli artisti più sensibili al tema naturalistico trovano nell'informale un linguaggio che permette loro di sviluppare su basi più radicali talune istanze già presenti negli impressionisti e nei Fauves. Ed il privilegio accordato al "brivido della vita" a scapito delle "strutture della mente" concorre a sopprimere il disegno del paesaggio assorbendolo nel gioco delle masse e delle intensità cromatiche.
In un simile contesto si può comprendere come, nel presentare l'antologica di Mario Chianese a Villa Croce, Guido Giubbini ne abbia caratterizzato la figura come quella di un isolato, che assume significato "non per quanto ha di moderno ma per quanto ha di antico", ribelle alla prevaricazione esercitata dalle tendenze non figurative e custode "di un prezioso patrimonio di conoscenze tecniche".
Ma l'insieme delle opere esposte, in sequenze ordinate cronologicamente, nelle sale del Museo sembra smentire questa interpretazione, quanto meno nel suo risvolto pi marcatamente "conservatore". La crisi della rappresentazione (dello scenario naturale come della figura umana) e la crisi della stessa pittura di fronte all'affermarsi di nuove tecniche artistiche, sollecita Chianese non già ad un arroccamento nella tradizione ma ad un dialogo con le nuove correnti che dagli anni '60 si protrae sino agli inizi dello scorso decennio.
All'innata sensibilità poetica ed al radicamento in un territorio - quello della collina fra Liguria e basso Piemonte - l'artista unisce la ricerca non di una semplice sigla personale ma di nuovi, ponderati sbocchi all'impasse riscontrata.
Al giro d'orizzonte compiuto negli anni formativi tra gli esempi del Naturalismo ottocentesco, il Postimpressionismo e la lezione morandiana, alle soglie degli anni '60 fa seguito infatti un singolare confronto a distanza con l'astrattismo, mediato dall'incontro con Rocco Borella. Nelle bande orizzontali gialle e verdi di "Campi-luglio" od in quelle verdi e brune di "Campi-agosto" (entrambi del 1965) Chianese sembra piegare le disincarnate campiture di MarkRothko alle esigenze di una rappresentazione del panorama agreste svincolata dal dettaglio realistico.
Questo processo di affrancamento dal verismo si mantiene durante la fase successiva, in cui l'artista si vale di schemi d'ascendenza simbolista e liberty per introdurre nell'immagine paesistica una componente percettiva pura. Gli esiti straordinari - anche per magistero pittorico - delle "Riflessioni di natura" allora compiute (fra le quali s'annoverano "Tronco d'inverno", 1971, e "Viti a Monterosso", dell'anno successivo) trovano una radicale antitesi nelle "Registrazioni di natura" realizzate all'inizio del decennio seguente, dove - forse con riferimento a pratiche di arte povera o di Land Art - il fango del Lemme viene materialmente documentato nell'opera omonima (1980) accanto all'immagine del torrente e la pula raccolta dopo la trebbiatura contrappunta l'immagine assolata dell'aia.
Dopo il recupero della pittura nella sua "fisicità", Chianese riprende ad indagare, in taluni "dittici", la temporalità ("Sera e imbrunire d'estate", 1983) ed elabora imagini multiple, ove l'accostamento del particolare alla veduta d'insieme (rintracciabile ad esempio in "Fornace in disuso a Novi", 1981) introduce un pertinente tratto di complessità.
Nell'ultimo decennio la vitalità del rapporto con le tendenze contemporanee si affievolisce, bilanciato inizialmente da una rinnovata felicità espressiva che pervade i dipinti dedicati nel 1987/88 a Sant'Ilario. Mentre nei lavori recenti l'artista riprende, emulandole, cadenze decisamente ottocentesche, modulate su Rayper e Fontanesi. Con esiti sempre alti, ma più prossimi forse alla dimensione memoriale che non "al senso, eccitantemente vivo, della storia" evocato dal curatore.

Sandro Ricaldone

(gennaio 1998)





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