Hozro: materiali sulle arti visive a Genova


 

 

CELANT O DELL'INESPRESSIONISMO

 

In principio era Warhol. Lo scenario quello della società e della cultura di massa in cui "l'abbandono alla fatticità dei consumi ed al feticismo dei segnali non significa perdersi né negarsi ma a 'stare al tempo' ". Determinante non è più "essere"bensì entrare, in qualche modo, in circuito : ciò che Warhol appunto intuisce nei primi anni '60, abolendo "la propria pseu­do-identità, di stampo romantico, per entrare nei 'ripetitori' " identificandosi con la macchina fotografica, serigrafica, musi­cale, tipografica, filmica e televisiva e configurandosi così come il prototipo insuperato dell'inespressionista.

Il tema dell'inespressionismo come fuoriuscita dell'arte dal­l'ambito psicologico ed emozionale era stato posto una prima volta da Germano Celant in occasione di una mostra dedicata alle recenti tendenze artistiche statunitensi (Robert Longo, Cindy Sherman, Troy Brauntuch, Jack Goldstein, Matt Mullican fra gli altri) svoltasi nell'ambito dell'edizione 1981 de "Il Gergo Inquieto" dedicata al cinema underground americano, in tempi in cui il travolgente successo internazionale della Transavanguar­dia polarizzava l'attenzione verso manifestazioni artistiche marcate da un accentuato sensualismo oltre che da un forte recupero delle tecniche espressive tradizionali.

Celant ritorna ora sull'ipotesi critica abbozzata in quell'occa­sione con un volume di orizzonte internazionale (pubblicato in contemporanea da Costa & Nolan, l'editrice genovese di cui si dà per imminente l'acquisizione da parte della risanata Einau­di, in Italia; dalla Rizzoli International negli U.S.A. ed in edizione francese da Adam Biro), dotato di un ricco apparato illustrativo, riprendendovi diffusamente gli argomenti "contro la penuria delle argomentazioni pittoriche e scultoree che cercano di festeggiare il contemporaneo con il ricorso ai gesti viscerali ed al raggrumarsi imperfetto dei pigmenti e dei mate­riali classici, come il bronzo, così da personalizzare il decoro" per mettere a fuoco una prospettiva "oltre il contempo­raneo" (cosi' recita il sottotitolo) aperta sulla "condizione fredda e vuota dell'attualità", centrata sull'inganno dei lin­guaggi, compreso quello dell'arte".

In realtà la discriminante fra l'atteggiamento neo-manierista, stigmatizzato da Celant, e la dimensione dell'Inespressionismo - uniti nel riconoscere l'esaurimento della tradizione dell'avanguardia e che condividono altresì la pratica, pur diversamente declinata, del remake - è costituita appunto dalle differenti concezioni della figura dell'artista, enfatizzata nel primo caso secondo il canone messianico-narcisista del genio creatore che riscatta nell'estetico la banalità del quotidiano, ridotta nel secondo a quella di operatore (artmaker) impegnato nel montaggio d'immagini già date, nell'assemblaggio di suppellettili precon­fezionate, nella consapevolezza che "l'oggetto... è il nuovo soggetto".

Poiché l'artmaker viene presentato come una sorta di occhio impassibile teso a registrare lo stato delle cose, addentrandosi nei meccanismi istituzionali e tecnologici senza formulare dia­gnosi o prefigurare soluzioni, ci si può chiedere in cosa venga a consistere allora quello che, con un termine in voga anni fa', potrebbe definirsi lo "specifico" dell'arte.

Nella visione celantiana (in cui non sussiste, per l'individuo, alcun sostanziale margine d'indipendenza) risulta del tutto illusoria l'idea di un'arte che si ponga come realtà altra, come radicale alternativa all'esistente: la funzione che le viene riserbata è quella di elemento perturbante, capace di far "uso dell'immagine contro l'immagine", di produrre "una critica ed una parodia, uno spiazzamento ed una costruzione-decostruzio­ne portati all'economia ed all'informazione, al consumo ed al­l'ideologia dei linguaggi pubblici e mass-mediali".

Un esercizio dunque apparentemente non troppo discosto dal "détournement" praticato dai situazionisti, svolto però in modi asettici (se non indifferenti) in una condizione bloccata dal­l'insussistenza di sbocchi utopici.

Scendendo dal piano delle formulazioni teoriche alla verifica degli esempi addotti emerge comunque un'evidente discrepanza: se le opere di Barbara Kruger (manifesti ironici che recitano "Compro, dunque sono" o "Crei la storia quando concludi affari") o di Jenny Holzer (che fotografa la scritta "Proteggetemi da ciò che voglio"), le liste di films ed i "cataloghi" d'oggetti e immagini di  Gretchen Bender, i distintivi di Matt Mullican, i particolari di testi di Joseph Kosuth e le foto rifotografate da Sherrie Levine, le collezioni di vasi identici di Allan Mc Collum sembrano rientrare nel perimetro definito da Celant, del tutto diversa si presenta la situazione per numerosi altri artisti, in specie europei.

A cominciare dagli italiani (Bagnoli, Salvatori, Spalletti, tutti noti in città per aver tenuto, di recente, esposizioni alla Locus Solus) nella cui opera si affacciano componenti di ordine simbolico scarsamente compatibili con la griglia inespressionista.

Analogamente un carico esistenziale (analogo all'esempio di Spoerri) persiste nelle costruzioni degli svizzeri Peter Fischli e David Weiss, una sorta di nichilismo metafisico segna l'opera di Jan Vercruysse e persino i sorvegliatissimi assemblaggi di frigoriferi e poltrone di Bertrand Lavier risentono di schemi di spaesamento tipici delle avanguardie storiche, evidenziando nell'insieme una disposizione diacronica rivolta più alle stratificazioni del deposito culturale che all'advertising ed alle altre forme di comunicazione di massa.

Così Celant, in veste di critico militante, finisce con lo smentire - in parte almeno - il Celant teorico. Ma non è giu­sto, infine, che la qualità delle opere prevalga sul rigore degli schemi?

 

s.r.  (1989)





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