Hozro: materiali sulle arti visive a Genova





FRANCO BRUZZONE: UN'INTERVISTA

S.R. - Sono diversi anni ormai, dal '78 credo, che ho iniziato a seguire il tuo lavoro. Già allora, per, aveva assunto connotati se non definitivi, almeno chiaramente individuati nella relazione sottile, ambivalente, fra il variare di percorsi segnici conchiusi in forme elementari ed il rigore della struttura che li contiene. Vorrei quindi risalire a monte, rifare la storia delle tue ricerche degli anni '60 e, ancora pi indietro, dei tuoi anni di formazione.

F.B. - Il primo novembre compirò sessant'anni. Il viaggio a ritroso, perciò, rischia di prolungarsi troppo. Ad ogni modo il primo approccio alla pittura risale al tempo della mia adolescenza, quando ad Altare (dove sono nato) ho iniziato a frequentare lo studio di un pittore amico di mio padre.

S.R. - Di chi si trattava?

F.B. - Era Mario Grosso, un pittore locale, non molto conosciuto fuori ma apprezzato dal poeta Aldo Capasso, anche lui di Altare, che ha scritto ripetutamente del suo lavoro. Con mio padre Grosso andava su in Piemonte, ad Agliano d'Asti e in altri posti, a fare le decorazioni delle chiese, i finti marmi e così via. Io con lui ho cominciato a vedere i colori, disegnavo, insomma ho seguito una specie di apprendistato molto elementare. Intanto studiavo, ho fatto il liceo dagli Scolopi di Carcare, m'interessavo di storia dell'arte, ero molto portato per la materia e allora - dopo - quando si doveva scegliere per l'Università ...

S.R. - Perché non l'Accademia?

F.B. - Per i miei era fuori questione. Erano gli anni del dopoguerra, volevano per me la sicurezza di una professione stabile. Così, per conciliare le due cose, ho optato per la Facoltà di Lettere che mi avrebbe dato modo di accedere all'insegnamento e, nello stesso tempo, di coltivare i miei interessi per l'arte. E, retrospettivamente, non posso dirmi insoddisfatto.

S.R. - Che stimoli hai ricevuto dall'Università?

F.B. - Frequentavo l'Istituto di Storia dell'Arte. Ero interno, come si diceva allora. Vedevo tutti i libri, le riviste. "Quadrum" per esempio, che era bellissima, benché non fossi in grado di decifrarne i testi in tedesco. Si andava in giro a vedere i monumenti del romanico, in Provenza, in Emilia. Ma frequentavo anche, nel contempo, gli artisti genovesi che allora erano pochissimi: Borella, Fieschi, Edoardo Alfieri di cui ero divenuto molto amico. E poi Nobile, Rigon. Ho conosciuto anche un certo Consoli della Soprintendenza che mi diede modo di presentare qualche lavoro in una rassegna al Teatro del Falcone.

S.R. - Quando?

F.B. - Nel '59, mi pare. Comunque la cosa più importante è stata la tesi. A quell'epoca mi interessavo molto di Espressionismo e avevo scelto di fare uno studio sui rapporti fra l'Espressionismo tedesco e gli artisti italiani di Corrente. Un amico di mio padre mi aveva prestato la raccolta della rivista che, anche allora, non era facile trovare e avevo cominciato a imbastire il mio testo. La Nicco Fasola, che era la relatrice, mi chiamò per dirmi che a Milano c'era una grande mostra sull'arte tedesca del XX secolo. Vado su a Milano, era il marzo del '58, erano già tre o quattro anni che dipingevo con una certa serietà... vado là, vedo la mostra, c'erano tutti gli espressionisti, ma la cosa che mi ha sconvolto davvero, arrivato alla fine, dopo Kandinsky e Klee, è stato di trovarmi davanti l'opera di Wols. Che, di colpo, mi ha fatto superare tutto quel cotè violento, di denuncia, che è un po' il marchio dell'espressionismo storico, liberando per così dire uno spazio interiore, un'intensità esplosiva, svincolata dai limiti della rappresentazione oggettiva.

S.R. - Torniamo un attimo indietro. Quel paesaggio, alle tue spalle - sicuramente uno dei tuoi primi lavori - non denuncia un'impronta espressionista. Semmai ha un taglio alla Carrà, di tonalismo lombardo.

F.B. - Sì, è un pezzo del '54, di parecchio anteriore alla situazione che stavo descrivendoti. Interessante, però, al di là della valutazione critica che si può darne, o dell'inclinazione che, con la sua luminosità, rivela per la metafisica di Carrà e di Morandi, perché nel profilo della casa, al centro, sembra emergere già - come ha scritto Franco Tiglio - quell'elemento pentagonale che, sganciato da ogni referente concreto, diverrà una presenza costante nella mia pittura a partire dagli anni '70.

S.R. - Dicevi prima dell'impressione ricevuta da Wols.

F.B. - Certo. Ho fatto allora una serie di acquerelli che ti mostrerò (uno è pubblicato nel catalogo della mostra di Spotorno), emblematici di quest'incontro. Ma in quel periodo guardavo anche a Mirò, a Gorky, che ho visto alla Biennale, ne ho un ricordo straordinario, di quest'immagine in cui si configura un mondo. Così sono andato avanti in un ambito di ricerca in qualche modo ispirato al Surrealismo. Tra l'altro m'interessavo di psicoanalisi, leggevo - più Jung che Freud - e tutto ritornava in circolo nei quadri.

S.R. - Finita l'università, ti sei stabilito ad Albissola, che nei primi anni '60 era ancora un crocevia importante nel mondo dell'arte, con Jorn, Lam, Fontana, Manzoni...

F.B. - Non subito. Dopo la laurea avevo iniziato le mie peregrinazioni scolastiche, insegnavo a Garessio. Ad Albissola ho tenuto le prime personali, al Circolo degli Artisti, al Bar Testa, alla Galleria Pescetto, fra il 1961 ed il 1963. Il ricordo più bello è legato alla prima mostra. Esponevo un gruppo di disegni nella saletta del Circolo... un giorno mi hanno chiamato al telefono (stavo ancora ad Altare) e mi hanno detto: "Vieni giù subito, c'è qui Cardazzo che vuole comprare". Sono andato giù e lui mi ha comprato quattro disegni, ottantamila lire in totale, era la prima volta che vedevo un assegno.

S.R. - A giudicare dall'esempio che mi hai mostrato, erano tavole in cui già disponevi sequenze di figure minime, vagamente biomorfe, che sembrano affiorare dall'inconscio. Ma quali esiti ha sortito il rapporto con Cardazzo?

F.B. - Non molti. La partecipazione al Premio San Fedele, che era una cosa molto seria, con una selezione rigorosissima. Certo nella sua orbita avrei potuto fare qualcosa. Mi spingeva a trasferirmi a Milano, ma non avevo la possibilità, i mezzi... Poi è morto presto, alla fine del 1963, e con lui è finita anche Albisola. Venivano tutti appresso a lui, veniva Capogrossi da Roma... Era un momento intenso, c'erano scambi, da Pescetto, quello del ristorante ad Albissola Capo, si facevano delle mostre bellissime. Comunque Cardazzo quando ha visto lì nel '63 i miei quadri neri mi ha detto: "I disegni erano molto più magici". E in effetti quelle cose rientravano in un tipo di pittura, la Nuova Figurazione. Possono ricordare certe cose, non so, di Bergolli.

S.R. - Veramente io li vedo molto segnici. Direi molto più sul versante di Scanavino, anche se il tratto è molto largo, costruito. O di Perilli, del Perilli d'allora, per questo aspetto della scansione in bande e riquadri.

F.B. - In effetti non avevo di mira la rappresentazione, anche se in alcuni lavori immediatamente successivi, che io chiamo "quadri-fumetto" ci sono degli inserti di quel tipo, magari riferibili a registri diversi: un frigo pop, una casetta naif (un motivo che torna) eccetera. Ma il fatto più importante è quello che dicevi: l'affiorare della struttura, come una trama logica, razionale, che d ordine alle pulsioni inconsce veicolate dal segno.

S.R. - A questo punto, quindi attorno al 1963/64, i due motivi di fondo del tuo lavoro - componente segnica e impianto strutturale - appaiono chiaramente individuati ma tendono ancora ad avvicendarsi, piuttosto che a intrecciarsi fra loro. Così, nella seconda metà degli anni '60, ci sarà ancora la vicenda degli "oggetti-fiore", di matrice surrealista-organica.

F.B. - Non direi, però, si sia trattato di un vero e proprio détour. Piuttosto di una ricerca focalizzata sulla mutevolezza e la complessità, come notava Renzo Guasco nella presentazione della personale che ho tenuto a Torino nel '68, nella galleria di Pastori, "Il Punto".

S.R. - Guasco accennava anche alla limpidità del colore, alle stesure uniformi, senza profondità, che evocano la suggestione dei "fondi oro".

F.B. - Sì, in quel momento, fra l'altro, si vede un alleggerimento del colore, un attenuarsi progressivo in direzione della trasparenza.

S.R. - E da queste immagini inglobanti si torna alle "immagini staccate", alle "scritture ideografiche", che nel catalogo della mostra da Beniamino, a Sanremo, ancora con gli "oggetti-fiore", sono richiamate dalla citazione di Michaux in cui si accenna ad un "alfabeto che avrebbe potuto servire in un altro mondo, non importa quale".

F.B. - Era il febbraio del '71, proprio nella fase d'incubazione del lavoro nuovo.

S.R. - Quel disegno che compare nel catalogo del Museo di Gallarate con il titolo "prima prova"

di settembre.

F.B. - Appunto. Ma già da un po' di tempo riflettevo sul lavoro, vedevo qualcosa... Poi la soluzione è venuta all'improvviso. Era estate, stavo ormai a Pietra Ligure, non combinavo granché. Ada, mia moglie, un giorno mi dice: "Partiamo". Siamo andati in Sicilia e là, nel museo di Agrigento, ho visto i frammenti delle ceramiche arcaiche disposti l'uno accanto all'altro - in fila, in riquadri ordinati - nelle bacheche. Da questo è venuta un'associazione, è scattata un'idea ed ho iniziato a dipingere i quadri che l'anno dopo ho esposto a Genova, all'Unimedia.

S.R. - A questo punto mi sembra tu abbia iniziato un processo di elaborazione del segno, che perde progressivamente il carattere di "orma dell'inconscio", per divenire significante autonomo, il cui senso si stabilisce non pi in un rapporto con il profondo ma nella relazione con gli altri segni (o micro-icone), giocata nel varco stretto fra costante simmetrica e variazione continua, fra sequenzialità temporale e compresenza istantanea.

F.B. - Un processo in cui la complessità è raggiunta attraverso la semplificazione. Ricordo che alla mostra di Beniamino avevo messo - oltre agli "oggetti-fiore" - degli acquerelli, ancora con forme organiche ma più essenziali. Era venuto Calderara con Maria Ghiringhelli. I quadri gli sembravano forse troppo carichi ma vedendo gli acquerelli mi disse che quella era la strada da seguire e che dovevo, secondo lui, semplificare ancora.

S.R. - Poi c'è il discorso delle corrispondenze fra segno, colore e suono, di cui tu racconti l'agnizione dinanzi al Polittico dell'Arte della Lana, del Sassetta, alla Pinacoteca di Siena.F.B. - Mi rendo conto che possa sembrare un pretesto letterario, ma

stato proprio come ho scritto nel catalogo della mostra dei cartigli che ho fatto nel 1981 a Bari, all'Expoarte. Quest'idea che i segni sono suoni, sono musica essenziale, che il loro interagire crea un ritmo, non

un'elaborazione concettuale - neanche troppo nuova - era un fatto che ho percepito, un'esperienza che continua a coinvolgermi. Tant'é vero che per lo Studio Gennai ho pensato ad un'installazione su questo tema.

S.R. - Alla fine degli anni '70 i tuoi segni si sono fatti ancor più essenziali, ridotti alla forma del quadrato su cui s'innestano alternativamente elementi angolari o curvilinei, di cui Tiglio d una lettura simbolica.

F.B. - Il quadrato come forma statica, come simbolo terrestre, in contrapposizione con il triangolo che rappresenta il tetto, o il semicerchio che è la volta del cielo, la zona spirituale. Sono cose, archetipi che ci portiamo dentro. E' il discorso che si accennava a proposito di quel vecchio quadro degli anni '50 dove compare una casa contornata da una grande luce. Ma che si può applicare altrettanto bene alla "Moretta blu/ombra del vento", la ceramica che ho fatto nel '90 per la mostra di Villa Gavotti, nata dopo una visita ad una grotta presso Finale, la cui struttura evoca insieme la grotta, la casa, la piramide.

S.R. - In ultimo il colore si è fatto carico, pieno. E il tratto più marcato, frammentato a volte in una teoria di punti...

F.B. - E' una cosa venuta fuori un po' obliquamente. Per decorare dei piatti ho pensato di usare lo spolvero. Sai, a me piacciono queste cose, la "cucina" della pittura, mescolare i colori, le vecchie tecniche. E ho trovato che funzionava in sé, al di là dell'espediente pratico, che il contorno - aprendosi - acquistava una possibilità ulteriore. D'altronde c'è sempre un fatto di evoluzione: ieri può essere stata la tela libera o la ricerca sul tema della simmetria, oggi questo, domani...

(intervista raccolta da s.r. a Pietra Ligure il 4 agosto 1994)





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